I predatori dei beni comuni

by redazione | 1 Maggio 2014 9:19

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«Il lavoro è un bene comune» era lo stri­scione che apriva un cor­teo mila­nese della Fiom prima che si rac­co­glies­sero le firme sui que­siti refe­ren­dari sull’acqua del giu­gno 2011. Erano quelli i mesi in cui nell’occidente libe­rale i «beni comuni» sta­vano abban­do­nando le scri­va­nie di un numero cir­co­scritto di stu­diosi, per lo più eco­no­mi­sti negli Stati Uniti (Eli­nor Ostrom ed altri) e giu­ri­sti in Ita­lia (Com­mis­sione Rodotà), ponendo le pre­messe per dive­nire impor­tante cate­go­ria del dibat­tito poli­tico, capace di inflig­gere, con la vit­to­ria del refe­ren­dum sull’acqua, una delle pochis­sime scon­fitte del modello neo­li­be­rale trion­fante dalla caduta del Muro di Berlino.

Com­pren­dere il lavoro fra i beni com­muni non è stata ope­ra­zione poli­tica priva di cri­ti­che, che ven­nero da quanti ancora cre­dono nel costi­tu­zio­na­li­smo libe­rale e dalla cor­rente di pen­siero erede dell’operaismo. I primi hanno fatto leva sulle dif­fi­coltà teo­ri­che dell’inserire il lavoro fra i beni comuni. Inol­tre, hanno soste­nuto che «se tutto è un bene comune nulla è un bene comune», riven­di­cando così una spe­cie di purezza con­cet­tuale per cui i beni comuni non potreb­bero essere nulla più che un tetiu­m­ge­nus ben defi­nito fra pro­prietà pri­vata e pro­prietà pub­blica. Dall’altro lato, la cor­rente di pen­siero erede dell’operaismo, che ha avviato una impor­tante rifles­sione sul «comune» (Michael Hardt e Toni Negri), ha evi­den­ziato la ten­sione, in con­di­zioni di capi­ta­li­smo cogni­tivo, fra l’opzione di porre al cen­tro il red­dito e l’idea che il lavoro possa essere un bene comune (Andrea Fumagalli).

IL DEBITO ECOLOGICO

Visti gli effetti odierni del pro­getto di pro­du­zione for­di­sta insita nel «Piano Sini­ga­glia» che, insieme allo Schema Vanoni, uti­lizzò il denaro del Piano Mar­shall per raf­for­zare la pro­du­zione d’acciaio a Piom­bino, Coni­gliano e Bagnoli e dar vita al nuovo sta­bi­li­mento Ital­si­der di Taranto, è dif­fi­cile negare che il lavoro o meglio quel tipo di lavoro sia un «male comune». Un male per il lavo­ra­tori, con­ta­dini poveri cui fu pro­messo un futuro migliore rispetto a quello dell’«avara civiltà dell’ulivo» e per l’ intera comu­nità nazio­nale per­suasa, attra­verso un impo­nente sforzo degli appa­rati ideo­lo­gici dello Stato, che la tra­sfor­ma­zione bru­tale di beni comuni fisici e sociali come il pae­sag­gio, l’ambiente, la salu­brità delle acque, l’antico sapere con­ta­dino ed arti­gia­nale in capi­tale costi­tuisse un pro­gresso. Quel periodo sto­rico venne pre­sen­tato come boom eco­no­mico (per enfa­tiz­zare il legame con lo «Zio Sam») o come mira­colo eco­no­mico, una locu­zione più adatta a con­vin­cere i «mira­co­lati» che tra­scor­rere lun­ghe e dure ore respi­rando i fumi della tra­sfor­ma­zione della ghisa in acciaio fosse un pre­mio di cui biso­gnava esser grati ai vari pro­tet­tori poli­tici demo­cri­stiani che si bat­te­vano a Roma per por­tare lavoro, svi­luppo e pro­gresso nelle terre dei cafoni (Pallante).

Taranto è fin dalle sue ori­gini una tra­ge­dia del modello di capi­ta­li­smo defi­nito estrat­tivo e fon­dato su eco­no­mie di scala, su razio­na­liz­za­zione di pro­cessi pro­dut­tivi nel qua­dro di un pro­cesso deci­sio­nale strut­tu­rato in modo da non potersi far carico delle ester­na­lità nega­tive, siano esse di carat­tere eco­lo­gico ovvero sociale. A bene vedere infatti, dopo la sbronza «svi­lup­pi­sta» che un decen­nio dopo la rea­liz­za­zione dello sta­bi­li­mento ne decise il «rad­dop­pio» (in realtà la tri­pli­ca­zione avve­nuta nel 1971 in spre­gio alle prime resi­stenze del Comune di Taranto che cercò di opporsi negando i per­messi edi­lizi), la que­stione ambien­tale fu posta pro­prio dalle mae­stranze taran­tine. La «ver­tenza Taranto» nei con­fronti di Ital­si­der si svi­luppò nel 1974 otte­nendo qual­che risul­tato posi­tivo sotto forma di un accordo con­te­nente una serie di obbli­ghi volti al man­te­ni­mento di un ambiente di lavoro più accettabile.

TIPO­LO­GIA DEL DANNO

Le cono­scenze dispo­ni­bili nei tardi anni Cin­quanta (sono del 1959 i primi lavori di sra­di­ca­mento degli ulivi seco­lari e dei vigneti di una delle coste più belle del mez­zo­giorno) intorno a quel modello di svi­luppo, che oggi sap­piamo bene esser stato sov­ven­zio­nato attra­verso il «debito eco­lo­gico», non erano quelle dispo­ni­bili oggi. Nep­pure il libro sim­bolo dell’ambientalismo, Pri­ma­vera silen­ziosa di Raquel Car­son, era ancora stato pub­bli­cato ed Enrico Mat­tei veniva accolto come un eroe ovun­que si recasse per pro­porre i suoi dise­gni (visio­nari per l’epoca) di svi­luppo estrat­tivo. Occorre dun­que una com­pren­sione sto­rica di più lungo periodo per smet­tere di pre­sen­tare Taranto come un con­flitto del qui e adesso fra lavoro e ambiente (o salute).

La sen­si­bi­lità eco­lo­gica a livello inter­na­zio­nale ini­zia infatti ad emer­gere nei tardi anni Ses­santa e dal punto di vista eco­no­mico le ana­lisi di Fritz Shu­ma­cher (in ori­gine allievo pre­di­letto di Key­nes) dimo­strano come le sole ricette coe­renti con le esi­genze di un modello eco­no­mico soste­ni­bile vadano cer­cate in modelli «pic­coli e bel­lis­simi», che pri­vi­le­giano il lavoro di qua­lità e la buona distri­bu­zione nelle comu­nità di rife­ri­mento rispetto al modello for­di­sta a alta con­cen­tra­zione di capitale.

Anche in Ita­lia la sen­si­bi­lità ambien­tale stava pian piano emer­gendo. Seb­bene la Legge Merli, prima nor­ma­tiva a tutela dell’ambiente, dovesse giun­gere sol­tanto nel 1976, la giu­ri­spru­denza di legit­ti­mità e di merito aveva ini­ziato in mate­ria di immis­sioni indu­striali (l’articolo 844 del Codice Civile) a con­si­de­rare il diritto costi­tu­zio­nale alla salute (Arti­colo 32 della Costi­tu­zione) come imme­dia­ta­mente pre­cet­tivo e soprat­tutto non com­pri­mi­bile o bilan­cia­bile con qual­siasi altro inte­resse pur costi­tu­zio­nal­mente garan­tito come il lavoro o l’iniziativa eco­no­mica. L’evoluzione di que­sta sen­si­bi­lità capace di com­pren­dere il legame indis­so­lu­bile fra salute ed ambiente, era ini­ziata con la cosid­detta Legge anti­smog del 1964 e aveva rag­giunto il suo punto d’arrivo con la legge isti­tu­tiva del Mini­stero dell’ambiente nel 1986. In quello stesso periodo i giu­ri­sti lavo­ra­rono ala­cre­mente alla costru­zione di nuove tipo­lo­gie di danni risar­ci­bili, tutte indi­ca­tive di una emer­gente sen­si­bi­lità capace di dare rile­vanza al biso­gno fon­da­men­tale di con­durre una vita qua­li­ta­tiva in un ambiente sano al riparo da minacce per la salute psi­chica o men­tale. Si svi­luppa così il dibat­tito sulla risar­ci­bi­lità del danno non patri­mo­niale nella sua com­po­nente «bio­lo­gica» (inte­grità fisica), «morale» (inte­grità psi­chica) e infine «esistenziale».

Para­dos­sal­mente, l’identità di inte­ressi fra lavoro, salute ed ambiente venne offu­scata pro­prio nel qua­dro di que­sta evo­lu­zione giu­ri­dica e cul­tu­rale. La neces­sità di anco­rare la tutela giu­ri­dica a diritti sog­get­tivi, pur fon­da­men­tali e di rango costi­tu­zio­nale, fece per­dere di vista la dimen­sione col­let­tiva e quella dei doveri sociali, indi­vi­dua­liz­zando il con­flitto. Fu così che si insi­nuò la visione di un con­tra­sto di inte­ressi fra lavoro ed ambiente lad­dove il primo fu uti­liz­zato tra­mite una clas­sica stra­te­gia ricat­ta­to­ria, cui il sin­da­cato non riu­scì a resi­stere, come scudo ideo­lo­gico a tutela del pro­fitto. Da un lato la ridu­zione della que­stione ad un con­flitto fra diritti ed inte­ressi indi­vi­duali con­trap­po­sti (pro­durre da un lato, godere tipi­ca­mente come pro­prie­ta­rio resi­den­ziale di aria buona e un bel pae­sag­gio dall’altra) ren­deva gli inte­ressi sovra-individuali indi­ret­ta­mente coin­volti (lavoro e ambiente) in con­flitto tra loro. In più, lo Stato Sociale pro­prio in que­gli anni dichia­rava di potersi far carico del diritto costi­tu­zio­nale alla salute tra­mite l’istituzione (e siamo alla metà degli anni Set­tanta) del Ser­vi­zio Sani­ta­rio Nazio­nale, con ciò spo­stando la par­tita nell’ambito del diritto pubblico.

IN CERCA DI RICONVERSIONE

In que­sto qua­dro il lavoro (sala­riato) venne ridotto ad una mera com­po­nente del pro­cesso pro­dut­tivo, impor­tante in quanto «lotta alla disoc­cu­pa­zione» e dun­que con­trap­po­sto alle esi­genze di con­ser­va­zione dell’ambiente visto come entità sta­tica e con­ser­va­trice. La dimen­sione qua­li­ta­tiva del lavoro come pro­cesso di eman­ci­pa­zione, col­la­bo­ra­zione alle scelte pro­dut­tive, guar­diano delle con­di­zioni di luo­ghi e della sal­va­guar­dia di salute, ambiente e coe­sione sociale (qui sta l’importanza del lavoro dome­stico di cura ad oggi non sala­riato) viene com­ple­ta­mente smi­nuita nella logica for­di­sta, tanto nel caso di atti­vità eco­no­mica pri­vata quanto nel caso di quella pub­blica. Eppure gli appi­gli costi­tu­zio­nali non man­cano, dall’articolo 43 con il ruolo rico­no­sci­bile alle «comu­nità di lavo­ra­tori e utenti» all’articolo 46 con il «diritto dei lavo­ra­tori a col­la­bo­rare nella gestione delle aziende».

Negli anni Cin­quanta l’ideologia della cre­scita pro­mossa dallo Stato in prima per­sona accom­pa­gnata da igno­ranza della que­stione ambien­tale portò alla deva­sta­zione di Taranto. Negli anni novanta, la cele­bra­zione ideo­lo­gica delle virtù sal­vi­fi­che del pri­vato portò alla ven­dita al gruppo Riva. Qui però non c’è buona fede per­ché le cono­scenze eco­lo­gi­che c’erano già tutte ed il dovere dello Stato (Governo Prodi) sarebbe stato quello di farsi carico in prima per­sona della con­ver­sione dell’intera eco­no­mia dell’area. Infatti, l’immenso sito dello sta­bi­li­mento di Taranto era già stata dichia­rata, per legge, zona ad alto rischio ambien­tale nel 1994 e la ven­dita avvenne nel 1995. In più, la ven­dita della più grande accia­ie­ria Euro­pea, che impie­gava oltre 12.000 ope­rai avvenne a prezzo vile, poco più di 700 milioni di euro, nell’ambito di quella immensa dismis­sione di patri­mo­nio pub­blico le cui con­se­guenze rica­dranno per decenni sulle spalle delle gen­ra­zioni future. Nello spe­ci­fico pri­va­tiz­zando non ci si poteva certo libe­rare del pro­blema ma si mol­ti­pli­ca­rono i sog­getti coin­volti ed i con­flitti di inte­resse fino a giun­gere all’attuale stallo.

PRO­DU­ZIONE COMUNE

In que­sto con­te­sto biso­gna riflet­tere sul senso del lavoro come un bene comune, un’esperienza col­let­tiva capace di eman­ci­parsi dall’alienazione for­di­sta e dall’idolatria pro­dut­ti­vi­stica per farsi avan­guar­dia nella tra­sfor­ma­zione del capi­tale in beni comuni. Il lavoro può essere di com­mo­ning, dando così senso pieno alla con­di­vi­sione sociale nelle scelte rela­tive alla pro­du­zione, nei pro­cessi pro­dut­tivi, e nella grande con­ver­sione eco­lo­gica che volenti o nolenti siamo chia­mati ad intra­pren­dere. Il lavoro si fa bene comune se recu­pera la sua dimen­sione col­let­tiva e la sua sog­get­ti­vità poli­tica diretta, pren­dendo coscienza prima di tutto delle stru­men­ta­liz­za­zioni tra­gi­che di cui è stato vit­tima. Non esi­ste un inte­resse dell’ambiente e della salute con­trap­po­sto a quello del lavoro. Esi­ste sol­tanto un inte­resse pre­da­to­rio della pro­du­zione capi­ta­li­stica, che fa uso della tena­glia fra pub­blico e pri­vato per distrug­gere ogni bene comune, incluso il lavoro.

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