I Popolari prenotano la guida della Ue
BRUXELLES — «Gli elettori in tutta Europa si sono chiaramente allontanati, vogliono risposte»: forse la diagnosi politica più lucida l’ha data un non politico, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi.
A tarda sera, i primi risultati degli exit poll fotografano infatti quello che sarà il nuovo Parlamento europeo: un arco estremamente frammentato, dove quasi tutti i partiti anti-europeisti nei vari Paesi dovrebbero aver quasi triplicato i loro voti — passerebbero insieme da 56 a 143, contando anche i «senza tessera» — e già si lanciano appelli all’alleanza; e dove però i «grandi», i popolari e i socialisti che entrambi guardano a Berlino, sembrano reggere le loro postazioni. Il Ppe prevarrebbe con 212 seggi, i Socialisti e Democratici seguirebbero con 185, e i liberaldemocratici con 71. Se mai davvero gli anti-europeisti reclameranno il premio dell’avanzata — ma prima dovranno dimostrare di avere i numeri e la concordia — allora potranno essere solo loro, i popolari e i socialisti, a fare argine.
Per ora, si può prendere atto della probabile nomina a presidente della Commissione europea del popolare Jean-Claude Juncker, che avrebbe prevalso sul socialista Martin Schulz, più diretto concorrente: «Abbiamo vinto nel momento della crisi», ha esultato il presidente del Ppe, John Daul. Lo stesso Juncker ha detto: «Voglio essere il presidente della prossima Commissione. Il mio obiettivo è di creare la coalizione più ampia possibile. Sono pronto a negoziare, ma non mi metterò in ginocchio di fronte al Pse».
Si può riflettere sull’importante dato sull’affluenza alle urne: 60 per cento in Italia, 90 per cento in Belgio e Lussemburgo, giù giù fino al 13 per cento della Slovacchia. Non c’è stata in generale la frana che si temeva rispetto alle elezioni del 2009, anzi i votanti sono stati più numerosi di allora, segno (forse) che il disincanto si può ancora fermare; ma il tempo per il recupero non sarà lunghissimo, né garantito.
I primi risultati provvisori consentono poi un primo, molto vago scenario. Perde rovinosamente François Hollande con i suoi socialisti; vincono Angela Merkel in Germania (il suo partito avrebbe lasciato qualche voto per strada, ma è sempre oltre il 35 per cento e la sua coalizione con i socialdemocratici è sempre ben salda), Alexis Tsipras in Grecia (che si sarebbe fermato al 26,7% per cento), gli indipendentisti dell’Ukip in Gran Bretagna (primo partito con oltre il 30%), gli euroscettici in Danimarca (il loro partito anti-immigrati il primo del Paese), e quelli in Austria, in Belgio, nella stessa Germania. Poi, naturalmente, Marine Le Pen, che ha con sé un quarto della Francia, e reclama da Hollande la guida del governo.
Proprio lei ha pronunciato ieri poche parole che anch’esse potrebbero darci il ritratto del nuovo Europarlamento: «Unitevi a noi!», ha invitato (o intimato) all’indirizzo degli altri partiti euroscettici del continente. Fra domani e dopo, annuncia Matteo Salvini da Milano, tutti loro si riuniranno qui a Bruxelles per decidere il da farsi. E per trovare un linguaggio comune, che per ora non c’è: di comune c’è solo uno spauracchio, l’Ue, ma da solo non basta forse a plasmare una coalizione dai nervi saldi.
In ogni caso, l’Europa non sarà più quella di prima. Cambierà, in un senso o nell’altro, proprio come il suo Parlamento. Anche perché i mercati finanziari potrebbero raccogliere prestissimo il segnale partito da Parigi o da Londra.
«Stiamo uscendo dalla crisi gradualmente, molto gradualmente — avverte Mario Draghi dalla riunione delle Banche centrali a Lisbona —. Solo la sostenibilità della crescita ci farà andare avanti nell’integrazione, che è garanzia per la pace. Ma l’eredità del debito pubblico e privato continuerà ad avere un impatto sull’economia per anni».
Luigi Offeddu
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