Il grande patto della mazzetta torna la peste che infetta Milano

Il grande patto della mazzetta torna la peste che infetta Milano

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LA MATTINA di giovedì 8 maggio 2014, al risveglio, i milanesi si sono stropicciati gli occhi di fronte a un evento atmosferico davvero insolito nella stagione primaverile: una fitta nebbia avvolgeva la città, così innaturale da sembrare un presagio.
SI SARÀ stupito anche il cardinale Angelo Scola che, in occasione della Professio fidei, aveva già disposto di portare fuori dal Duomo e recare in pellegrinaggio la preziosa Croce di San Carlo con la reliquia del Santo Chiodo. Anche questo un evento rarissimo: per primo l’aveva fatto nel 1576 lo stesso arcivescovo Carlo Borromeo nei giorni della grande pestilenza che mieteva a migliaia le vite dei milanesi. Quattrocento anni dopo, nel 1984, fu un altro arcivescovo, Carlo Maria Martini, a portare la Croce di San Carlo per le vie di Milano per spingere la città a prendere coscienza delle “nuove pesti”, la corruzione e il malaffare, che di lì a qualche anno sarebbero state scoperchiate da Tangentopoli.
Anche nel 2014 il cardinale aveva deciso di richiamare per la terza volta, con quella scelta eccezionale, una “purificazione del cuore” che investe “il piano personale come quello sociale” per chiedere perdono a Dio generando “sobrietà” e recuperando la perduta “attenzione alla trasparenza e alla sobrietà”.
Non certo casualmente Scola aveva deciso di portare innanzitutto la Croce di San Carlo davanti a un grattacielo-simbolo del potere finanziario, la nuova sede dell’Unicredit in piazza Gae Aulenti. Già lunedì scorso egli aveva voluto predicare il primato dell’etica sugli affari, intervenendo all’assemblea annuale della Consob. Ma di certo Scola non aveva immaginato che l’8 maggio, quando infine il sole ha sciolto la nebbia, la sua città si sarebbe trovata al cospetto di un terzo accadimento eccezionale: la decapitazione dei vertici di Expo 2015, cioè l’evento planetario in cui Milano ripone la speranza di reagire a una decadenza che pare attanagliarla.
Eppure viene considerato un buon cattolico praticante quel brianzolo Angelo Paris, responsabile dell’ufficio contratti dell’Expo, che di fatto stava rimpiazzando un fedelissimo di Formigoni, Antonio Rognoni, capo di Infrastrutture Lombarde, già rinchiuso agli arresti domiciliari. Il manager che rivendeva a imprenditori e faccendieri amici le procedure di aggiudicazione degli appalti milionari, chiedendo loro in cambio una spinta alla sua carriera. Lo stesso impulso che lo aveva portato ad Arcore, a cena con Berlusconi, per discutere di nomine e di spartizione degli affari.
Nella sede dell’Expo, in via Rovello, sono rimasti di stucco. Si fidavano di Paris, nonostante quei suoi frequenti ansiosi richiami ai futuri incarichi cui aspirava. “Ci fidavamo di lui”, ammette un uomo del vertice di Expo, “e così è crollata di colpo la certezza che la squadra sia immune da ogni tipo di problema”. Un
incubo, la prima urgenza è rimotivare sul piano umano chi su Paris ci avrebbe messo non una, ma due mani sul fuoco.
Martedì arriva a Milano il premier Renzi e prima di allora Giuseppe Sala, l’amministratore delegato, si è imposto di nominare al posto di Paris un nuovo responsabile dei rapporti con le società che si contendono le ricche commesse che vanno dalla logistica (bretella autostradale, vie d’acqua, mezzi di trasporto) alla piattaforma su cui devono sorgere gli spazi espositivi, senza dimenticare i
parcheggi e i sessanta padiglioni da costruire in pochi mesi, finché tiene la buona stagione. Per questi ultimi la stazione appaltante è Euromilano, un consorzio di cooperative. Ma intanto serve d’urgenza un “capocantiere feroce” — la seconda nomina di peso da escogitare prima dell’arrivo di Renzi — in grado di avviare in pochi mesi quel che non si è fatto finora. Stiamo parlando di sessanta cantieri!
E i faccendieri finiti nella grande retata? Berlusconiani, legati alla solita filiera ciellina della Compagnia delle Opere, consulenti “rossi” delle Cooperative? Possibile che in via Rovello ne ignorassero la frenetica attività lubrificata da mazzette di dimensione all’apparenza modeste, ma che s’ingigantiscono se al business dell’Expo sommiamo i ben più lucrosi introiti derivanti dalla ristrutturazione degli ospedali?
Il fatto che si tratti di vecchie conoscenze di Tangentopoli, da Gianstefano Frigerio a Primo Greganti a Luigi Grillo — i cui profitti impallidiscono di fronte ai milioni cumulati dai faccendieri formigoniani Daccò e Simone — spinge qualcuno a liquidarli come macchiette. «Pensavo che settantenni come Frigerio e Greganti fossero ai giardinetti a curare i nipotini». Il nuovo segretario regionale del Pd, Alessandro Alfieri, si spinge oltre: «Credevo che Greganti fosse morto, di certo non ha preso la tessera in Lombardia e il segretario piemontese Gariglio mi dice che non gli risulta iscritto neanche lì». Nessuno ammette di frequentarlo, né fra i manager delle Coop né ai vertici del partito. Ma intanto questi faccendieri tutte le settimane andavano a Roma, gli agganci col potere ce li avevano eccome.
Strano perché ai massimi livelli un ricambio generazionale sembra già compiuto: i due milanesi che nel governo si occupano di Expo sono il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e il ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina. Settant’anni in due. Uno bianco ciellino (alle elezioni i candidati di Cl ormai sono tutti nella lista Ncd); l’altro ex segretario lombardo del Pd, bersaniano ma stimato da Renzi, una carriera iniziata all’ombra di Filippo Penati prima delle disgrazie giudiziarie di quest’ultimo.
Forse la stranezza si spiega col fatto che questi giovani rappresentano una continuità nel metodo di gestione consensuale del rapporto fra politica e affari. Certe nomine, certi favori alle aziende si concordano in modo che nessuno resti tagliato fuori. Funzionava così anche sotto lo strapotere di Formigoni, lo sa bene Penati. Indicativo della continuità di questo metodo è stato anche il criterio con cui il governo Renzi ha appena designato i nuovi consiglieri d’amministrazione di Terna: uno al centrodestra, l’ex sottosegretario di An Stefano Saglia; uno al centrosinistra, il fiduciario dalemiano Carlo Cerami; e il terzo, Fabio Corsico, uomo vicino al banchiere più trasversale della galassia del Nord, Fabrizio Palenzona.
Che il sottopotere romano abbia tuttora voce in capitolo nella capitale del Nord, del resto, deve saperlo perfino il cardinale Scola. Il quale, prima di portare in processione la Croce di San Carlo, aveva cooptato nella sua fondazione più importante, l’Istituto Toniolo, nientemeno che Gianni Letta. Lasciti non irrilevanti di quel mondo permangono anche nella struttura di vertice dell’Expo, le cui pubbliche relazioni sono curate da Roberto Arditti, già direttore del “Tempo” di Roma, già portavoce del ministro Scajola, già coautore di Bruno Vespa. Senza dimenticare un altro manager, Antonio Acerbo, proveniente dalla filiera della giunta di Letizia Moratti.
Sul fronte della destra è la ditta veneta Maltauro quella che sembra essersi procacciata con mezzi illeciti una cospicua fetta di torta dell’Expo. Già coinvolta in Tangentopoli vent’anni fa, nel frattempo si era distinta fra l’altro nella costruzione del bunker di Gheddafi. Le Cooperative rosse, a loro volta, hanno trovato spazio principalmente con la loro componente emiliana: un colosso come la Cmc di Ravenna e poi altre coop di Imola, la città del ministro Poletti (ma questa è sicuramente solo una coincidenza). Si attende ancora, sul versante di sinistra, un chiarimento riguardo alla figura del redivivo Greganti: era titolare di consulenze? Davvero i suoi contatti con uomini di vertice del Pd sono
solo millantato credito?
Questa opacità di relazioni avvolge Milano ben più della nebbia di maggio. Si abbatte sugli sforzi del sindaco Pisapia che ha conquistato Palazzo Marino sconfiggendo l’ala penatiana del Pd; e anche sul presidente della regione Maroni che forse oggi si è pentito dello spazio mantenuto agli uomini di Formigoni. Pisapia e Maroni in fondo restano nella loro diversità due eccentrici rispetto all’asse governativo in cui si ritrovano a gestire l’Expo i giovani ministri bianco-rossi Lupi e Martina. Ma alla fine la sciagura dell’Expo decapitato, così come delle sempre più evidenti infiltrazioni mafiose nella sempre meno ricca Lombardia, toccherà a loro fronteggiarla. Sono loro che rischiano di perderci la faccia.
La Tangentopoli dei vent’anni dopo, con le sue bustarelle svalutate dalla crisi, colpisce la principale via d’uscita dalla decadenza su cui puntava non solo Milano ma un bel pezzo dell’economia italiana. Recuperare l’onore e il tempo perduto diventa una maledetta corsa contro il tempo nella quale è chiamato a impegnarsi in prima persona lo stesso premier Renzi. Metterci la faccia è scomodo, quasi più scomodo che allo stadio Olimpico di Roma. Perché intorno alla cittadella dell’Expo che vacilla non c’è più un establishment capace di tenuta. Ieri è giunto a segnalarlo
l’arresto in blocco, per appropriazione indebita, di un’intera famiglia nella “finanza creativa”: i Magnoni. Si parla della distrazione di ben 100 milioni da una loro società, la Sopaf. Cifre che i faccendieri alla Frigerio e alla Greganti, se le sognano. Ma la spregiudicatezza e l’illegalità dei tempi delle vacche grasse finiscono per confonderli nella stessa nebbia.
Passato il giorno della grande retata, ieri, 9 maggio, è sotto un bel sole che l’ex sovrano di questo territorio della ricchezza e degli intrighi, ha fatto il suo ingresso nella realtà dell’umana sofferenza, a Cesano Boscone. L’auto blu che l’ha condotto a espiare le sue malefatte prestando un’opera di servizio sociale, ha attraversato un paesaggio che brulica di cantieri. Potrebbero simboleggiare il risveglio di Milano se molti dei suoi cittadini non li percepissero come macerie.


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