by redazione | 15 Maggio 2014 10:55
Nessuna modifica rispetto al testo licenziato dalla Camera il 29 aprile scorso. Neppure l’ordine del giorno, annesso in commissione Giustizia dal relatore del provvedimento Carlo Giovanardi, che intendeva impegnare il governo a legiferare, nel più breve tempo possibile, per equiparare nuovamente la marijuana alle droghe pesanti, con buona pace della sentenza della Consulta che ha fatto carta straccia della legge Fini-Giovanardi. L’annunciata battaglia dei proibizionisti in Senato ha avuto invece vita breve. Ieri l’Aula di Palazzo Madama ha approvato, con 155 voti favorevoli e 105 contrari, la legge di conversione del decreto sulle droghe, che porta il nome della ministra della Salute Beatrice Lorenzin, su cui il governo aveva posto la fiducia. La decima.
Insieme a Fi e Lega, hanno votato no anche Sel e M5S che avrebbero voluto un vero dibattito parlamentare sperando di portare almeno una parte del Pd sulle loro posizioni, favorevoli alla legalizzazione della cannabis o almeno alla depenalizzazione dei reati ad essa connessi (emendamenti presentati, e bocciati, in commissione). Ma anche Giovanardi ha accettato malvolentieri la scelta del governo di blindare il testo. «Non è possibile – ha protestato –che una legge come quella sulle tossicodipendenze sia stata bocciata per un cavillo giuridico procedurale dopo esser stata discussa per due anni in commissione Giustizia creando un vuoto normativo che ha avuto come conseguenza un provvedimento rimasto all’esame del Senato per non più di sei ore in tutto». Intervento praticamente fotocopia a quello di Gasparri (Fi) che, a favore della tesi «scientificamente provata» secondo cui droghe pesanti e leggere pari sono, chiama in causa il «Dipartimento antidroga, non un organo di parte», dice, che proprio ieri «ha ribadito la pericolosità della cannabis».
In verità però non è affatto chiaro cosa sia attualmente il Dipartimento antidroga. E soprattutto che ruolo abbia ancora l’ex capo Giovanni Serpelloni, vicinissimo al senatore Giovanardi, che pur non essendo stato riconfermato sarebbe ancora autorizzato a lavorare (e comunicare?) nella sede del Dpa come consulente, «ma a titolo non oneroso», come egli stesso ha ammesso all’agenzia Redattore sociale. Proprio di questo chiede conto al governo il senatore Luigi Manconi (Pd) in un’interrogazione parlamentare presentata per sapere «se corrisponde al vero che l’ex Capo Dpa è ancora al suo posto di lavoro, sebbene decaduto, e – in caso affermativo – chi ha autorizzato questa presenza o “consulenza” come da lui stesso affermato e se la Ulss di Verona (dove avrebbe dovuto rientrare, ndr) sia a conoscenza di questa attività e se l’abbia preventivamente autorizzata». La curiosità di Manconi (e non è il solo) è anche quella di sapere «gli esatti contorni della consulenza» e «a che titolo» Serpelloni è ancora autorizzato a entrare negli uffici della Presidenza del Consiglio.
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