Ex dc, falangisti ed estrema destra la rete che protegge i latitanti in Libano

by redazione | 9 Maggio 2014 9:41

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ROMA . Tutte le strade della latitanza portano dunque in Libano. A Beirut è riparato Marcello Dell’Utri. Beirut doveva essere il porto franco di Amedeo Matacena junior.
Perché?
Latitanti l’uno e l’altro per lo stesso reato (concorso in associazione di stampo mafioso) e figli della stessa famiglia politica (Forza Italia), i due appaiono certamente orientati nelle loro mosse da una considerazione elementare per chi decide di sottrarsi all’esecuzione di una condanna già inflitta (Matacena) o lì dall’esserlo (Dell’Utri). Il Libano, dove il reato associativo di mafia è ignoto, la battaglia per l’estradizione non è una scommessa a perdere. Soprattutto se, nell’estenuante procedura imposta dai trattati (a cominciare dalla traduzione in lingua araba degli atti processuali) e nella possibilità che il processo
di estradizione si trasformi nei fatti in un nuovo giudizio di merito, si ha buon gioco nell’agitare il fantasma di un giustizia orientata politicamente. È tornato a farlo ieri con significativo timing Akram Azouri, l’avvocato libanese di Dell’Utri («Sul dossier del mio cliente c’è un malsano chiasso mediatico. Ma se in Italia il dossier è politico, non lo è in Libano»). Avrebbe avuto agio di farlo Matacena. E tuttavia la spiegazione non basta.
Sulla scena della fuga di Dell’Utri, così come in quella di Matacena documentata dagli atti della Procura di Reggio, si rintraccia infatti una cruciale ricorrenza che nulla ha a che fare con le Pandette o il diritto internazionale. Che evoca piuttosto quel network “nero” che, dagli anni ‘70, annoda gli ambienti falangisti cristiano-maroniti con quelle che, un tempo, furono le nostre correnti democristiane inclini a dialogare con l’area neofascista. Accade infatti che, come per Dell’Utri, nell’affaire Matacena venga evocato quale nume protettore della latitanza un signore di 72 anni, Amin Gemayel, candidato alle elezioni presidenziali libanesi del prossimo 25 maggio.
Amin Gemayel, dunque. Figlio di Pierre, fondatore del partito cristiano-maronita delle kata’eb (le “Falangi libanesi” di ispirazione fascista che negli anni del conflitto civile si macchieranno del massacro di Sabra e Shatila), ha molto a che fare con il nostro Paese e, quale vicepresidente dell’Internazionale democrisitana, i suoi legami con la rete degli ex dc transitati armi e bagagli con il centro-destra sono saldi come l’acciaio. È a lui che si fa riferimento nell’intercettazione ambientale di “Assunta Madre”, il ristorante romano ai cui tavoli Alberto Dell’Utri ragiona della latitanza del fratello Marcello. Ed è ancora lui ad essere improvvidamente evocato un mese fa da Berlusconi in un colloquio con i deputati di Forza Italia per giustificare la presenza di Dell’Utri in Libano («L’ho mandato io a Beirut per dire che Putin lo avrebbe appoggiato alle presidenziali»). Un canovaccio che si ripete nell’affaire Matacena. Nel maggio del 2013, Amin Gemayel è infatti in Italia per deporre una corona di fiori al cimitero del Verano sulla tomba di Andreotti, accompagnato da un signore cui la Procura di Reggio attribuisce un ruolo operativo chiave nell’organizzare l’arrivo di Matacena in Libano: Vincenzo Speziali, nipote dell’omonimo ex parlamentare forzista reggino e uomo dalla vita divisa tra la Calabria e Beirut, dove per altro ha incontrato la donna che è diventata sua moglie. E ancora: in quello stesso mese incontra per un pranzo a Milano proprio Silvio Berlusconi.
C’è di più. Nelle indagini della Procura di Reggio e della Dia, il mondo che si agita insieme a Claudio Scajola per aiutare a raggiungere il Libano “l’amico Amedeo” (figlio per altro di quell’Amedeo senior animatore dei moti fascisti di Reggio nel ‘71) ha invariabilmente le stimmate di quell’area di ex democristiani “grigio fumo” che flirtano con la destra. E per i quali, evidentemente, la scommessa su un Libano “falangista” di Amin è qualcosa di più che un credito a futura memoria da riscuotere con due latitanti. Nelle indagini della Dia, fa ca-
polino un vecchio arnese come Emo Danesi, oggi ultrasettantenne ed ex segretario di Toni Bisaglia, espulso dalla Dc di De Mita perché appartenente alla P2. Di più: Chiara Rizzo, la moglie dell’armatore, trova aiuto e sponda nei figli di Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia. Incontra anche Luigi Bisignani. Che tuttavia, raggiunto al telefono, cade dalle nuvole prima di sciogliersi in una risata: «Non vedo Matacena da sei anni. Ho incontrato la moglie a una festa a Montecarlo organizzata da mia cognata in cui gli invitati saranno stati almeno 150. E quanto al Libano, sono stato di recente a Beirut. Ma per andare a trovare mia figlia, che si è trasferita lì con il marito, e il mio nuovo nipotino di 6 mesi».
Ex democristiani transitati in Forza Italia, dunque, falangisti libanesi e — ecco il terzo anello della catena — ex neofascisti
italiani. Nell’affaire Dell’Utri, l’evocazione del suo nome nell’intercettazione ambientale da “Assunta madre”, ha convinto qualche settimana fa Gennaro Mokbel, a battere un colpo in una lunga intervista al direttore del Tempo Gian Marco Chiocci. Per negare, va da sé qualunque ruolo nella fuga dell’ex senatore, ma anche per ricordare ai “naviganti” l’amicizia con il fratello Alberto, e l’aiuto chiesto e non raccolto da Marcello Dell’Utri per il movimento di destra “Alleanza federalista”.
Già, Mokbel. Un cognome, che con altrettanto curiosa coincidenza, porta l’attuale vicepremier e ministro della Difesa libanese, Samir. Uno degli uomini più ricchi e influenti del Paese, amministratore delegato della “Samir Mokbel&co”, colosso del real estate in Libano e negli emirati arabi. Naturalmente, il nostro, di Mokbel, smentisce. Lui, dice al Tempo, ha genitori egiziani.

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