by redazione | 31 Maggio 2014 19:20
?POSSIAMO dire che comincia a prendere forma una costituzione per la Rete, un vero Internet Bill of Rights? Proprio negli ultimi due mesi vi è stato un affollarsi di novità che non solo giustificano la domanda, ma sono il segno concreto di una tendenza in atto, che ritroviamo in sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea, nell’imminente nuovo regolamento europeo sulla privacy, in una importante legge brasiliana su Internet. Si manifesta così la consapevolezza della impossibilità di lasciare il Web al dominio delle sole logiche del mercato o della sicurezza. E soprattutto viene smentita la tesi della morte della privacy. Questa è tornata al centro dell’attenzione planetaria dopo le rivelazioni sul Datagate, tanto da indurre uno dei più convinti certificatori di quella morte, Mark Zuckerberg, ad affrettarsi ad assicurare che Facebook garantirà a questo diritto una più forte tutela.
LA CORTE di giustizia è intervenuta fondando le sue sentenze sull’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantisce la protezione dei dati appunto come un diritto fondamentale della persona, al quale viene data protezione costituzionale. L’interesse economico di Google, e in generale dei motori di ricerca, non può prevalere su un diritto fondamentale che la Carta dei diritti colloca nella parte dedicata alla dignità della persona. Inoltre, si è affermato che ai motori di ricerca, se hanno nei paesi dell’Unione una loro presenza organizzata, si applicano le norme contenute nelle direttive europee.
Quest’ultima è una affermazione di grandissimo rilievo. L’idea di un mondo globale vuoto di diritto e soggetto solo al potere incontrollato delle imprese multinazionali viene rigettata. Si manifestano così, concretamente, i segni di un Internet Bill of Rights, di un riconoscimento alle persone di una effettiva garanzia del libero governo della loro sfera privata, quali che siano i soggetti che trattano le loro informazioni e i luoghi dove vengono conservate. Molto di più del solo riconoscimento del “diritto all’oblio”, per il quale comunque Google ha già predisposto una procedura per presentare e valutare le richieste di deindicizzazione.
Il Parlamento europeo aveva detto chiaramente che lo spazio comune di Internet deve essere libero dal rischio che se ne impadroniscano le grandi società, e rimanere uno spazio dove possano prosperare la libertà di comunicazione e l’innovazione. Con la sentenza della Corte di Giustizia si fa un passo importante in questa direzione, restituendo anche rilevanza a principi già previsti dalle direttive europee, ai quali quei motori di ricerca avevano cercato di sottrarsi. Ricordo i principi di finalità, proporzionalità, necessità e la norma che già dava alla persona interessata il potere di opporsi, per “motivi legittimi”, al trattamento dei suoi dati, anche se raccolti in maniera legale. Proprio partendo da queste premesse, erano già state rivolte molte richieste ai motori di ricerca, che potrebbero ora essere anche classificate come manifestazione del diritto all’oblio. Ma oggi il fondamento della garanzia discende direttamente dalla Carta dei diritti. Ragionare trascurando questa sostanziale novità, impedisce di cogliere il valore profondo della sentenza come tassello di una più generale costruzione costituzionale dei diritti sul Web.
Vi è poi un significativo legame tra questa sentenza ed una precedente che ha dichiarato l’illegittimità della direttiva europea sulla conservazione dei dati. In entrambe, infatti, compare il riferimento alla necessità di evitare che possano essere costruiti “profili” delle persone fondati non solo su informazioni sgradite all’interessato, ma nell’ambito di un contesto che può distorcerne la personalità. La crescita quantitativa delle informazioni disponibili ha determinato un mutamento qualitativo, che investe la stessa identità delle persone, che ha messo in evidenza l’enorme potere di Google e la necessità di controllarlo giuridicamente e socialmente, tanto che si è sottolineato che Google è vittima del suo stesso successo. Non a caso si è detto che “tu sei quello che Google dice che tu sei”, considerazione particolarmente rilevante in Europa, dove Google controlla il 90% degli accessi. La linea indicata dalle due sentenze, infatti, non ci ricorda soltanto che le ragioni di sicurezza non possono giustificare qualsiasi forma di raccolta di dati personali e qualsiasi periodo di conservazione, da una parte, e che, dall’altra, che vi è un diritto all’oblio. Si definiscono limiti all’azione di soggetti pubblici e privati per garantire alla persona interessata la possibilità di tornare ad essere quella alla quale viene riconosciuto il potere di governare la costruzione della propria identità.
Proprio per la sua radicalità, la sentenza riguardante Google si è attirata diverse critiche. L’argomento del pregiudizio per il mercato, tuttavia, trascura la nuova gerarchia istituita tra diritti fondamentali e interessi economici. Il mercato non può essere considerato come una sorta di legge naturale, che prevale su ogni altra. Più seria è la preoccupazione riferita ai possibili rischi per la libertà di espressione, ma la Corte ha escluso che le “figure pubbliche” possano invocare il diritto all’oblio e ha sottolineato che in casi specifici si dovrà confrontare la natura delle informazioni e il loro carattere sensibile per l’interessato con l’interesse alla conoscenza dell’opinione pubblica.
Si è dunque aperta una fase di riflessione che richiederà una valutazione del bilanciamento tra i vari diritti e interessi in gioco. Ma questo non può divenire un pretesto per rimettere in discussione il primato attribuito al diritto fondamentale alla protezione dei dati. Qualcuno teme che, muovendo da queste premesse, si possa giungere a un Web 3.0 dominato dal potere dell’interessato di controllare i dati che lo riguardano. Questo è un modo per travisare la questione. A quel Web 3.0 si dovrà guardare come ad uno spazio costituzionalizzato, dove gli Over the Top o altri padroni del mondo non possano considerarsi liberi da ogni regola o controllo. La versione integrale di quest’articolo esce su Eutopia, rivista web europea promossa da Laterza © Commons creative eutopia magazine
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