by redazione | 9 Maggio 2014 9:32
La lista delle imprese grandi e medio grandi in difficoltà nel nostro paese non cessa di allungarsi nel tempo. Nell’ultimo anno abbiamo registrato le difficoltà di varia natura e profondità dell’Ilva, dell’Alitalia (ora forse in via di acquisizione da parte degli arabi), del gruppo Ligresti (peraltro assorbito poi dall’Unipol), dell’Indesit (attualmente in vendita al miglior offerente), di almeno alcuni settori della Finmeccanica (trasporti ed energia), di Telecom Italia (le cui vicende meriterebbero da sole la stesura di molti volumi), nonché di diverse banche, a partire dal Monte dei Paschi di Siena. Sempre nell’ultimo anno abbiamo registrato dei casi di cessione di importanti società nazionali, mentre si rincorrono le voci di vendita di diverse altre imprese nazionali di rilievo a gruppi stranieri.
All’origine storica di tali difficoltà stanno da molto tempo, come è noto, la debolezza di una classe imprenditoriale in gran parte inadeguata ai mutamenti in atto nel mondo, le politiche inconsistenti del settore bancario, e quelle infine nefaste, quando non inesistenti, dei vari governi al comando in questi anni. Va aggiunto poi l’intreccio perverso da sempre esistente tra tali attori. Ai mali storici si sono aggiunti nell’ultimo periodo problemi ulteriori, quali l’incidere progressivo dei processi di internazionalizzazione e l’avanzare della crisi. Che cosa si potrebbe fare per far ripartire un sistema che, in mancanza di interventi che vadano al di là delle emergenze immediate, sembra destinato a difficoltà sempre più gravi?
Proviamo prima a passare in rassegna i principali casi industriali del nostro paese. Per quanto riguarda l’Ilva, dietro le difficoltà ambientali, pur molto rilevanti e che l’attuale commissario non sembra stia veramente affrontando, c’è un grave problema strategico. Oggi l’azienda nel suo complesso è collocata intorno al 25° posto nella classifica mondiale dei produttori di acciaio. La dinamica concorrenziale mondiale vede la presenza di gruppi sempre più grandi, presenti con grandi investimenti in tutti i continenti, con la tendenza anche ad un’integrazione verticale. I cinesi da soli nel 2012 producono più del 50% dell’acciaio mondiale. Il gruppo italiano manca invece del tutto dei capitali, delle risorse organizzative, dei mercati (esso è presente in misura rilevante in Italia e un poco in Europa), adeguati per reggere la concorrenza. Sembra si stiano facendo avanti degli imprenditori italiani che vorrebbero rilevare solo un’Ilva ridimensionata. Il che non sarebbe certo ideale per la nostra economia.
In una situazione per alcuni aspetti non molto diversa si trova l’Indesit. Premettiamo che si tratta di un’impresa oggi in utile, ma anche in questo caso essa si trova a fatturare 2,5 miliardi di euro all’anno con una presenza commerciale e produttiva importante soltanto in alcuni paesi europei; anche in questo caso i cinesi producono circa il 50% di tutto il volume d’affari del settore, mentre la Samsung fattura sui 160 miliardi di dollari, anche se si tratta di un gruppo diversificato. I produttori tedeschi sembrano reggere la concorrenza grazie all’inserimento nella fascia alta del mercato, mentre la Indesit è intrappolata in mezzo, barcamenandosi tra fascia alta e bassa, e non riesce a fronteggiare adeguatamente la strategia tedesca, apparentemente l’unica via di salvezza possibile per un produttore occidentale.
Per quanto riguarda l’Alitalia, ai gravi problemi storici della società che imperversano da più di cinquanta anni (corruzione, forte invadenza politica, cattivo livello del servizio, sovraoccupazione, organizzazione pletorica, ecc.), si sono aggiunti da una parte la crisi e la concorrenza della linee aeree low cost e dell’alta velocità ferroviaria, dall’altra gli errori strategici di un management inadeguato. In Europa si registra una pletora di produttori, con tendenza alla concentrazione, risultati mediocri dal punto di vista economico anche per le compagnie migliori, tranne che per il low cost.
Una delle vicende più tristi è poi quella di Telecom Italia, gruppo che, a partire dalla sua non troppo brillante privatizzazione, è stato progressivamente spogliato delle sue risorse e potenzialità, mentre è fortemente cresciuto il suo livello di indebitamento e sono stati notevolmente ridotti gli investimenti in grado di mantenerla in prima linea nella lotta concorrenziale. Essa si trova oggi in un mare di incertezze strategiche e sul controllo azionario.
Infine, per quanto riguarda Finmeccanica, i settori dell’energia e dei trasporti si trovano da tempo in una situazione difficile e da alcuni anni il management sta cercando di sbarazzarsene; da molto tempo il gruppo ha del tutto trascurato alcune attività in cui erano presenti importanti competenze tecnologiche ed industriali, per dedicarsi esclusivamente a quelle militare-spaziali, ora in tendenziali difficoltà, in presenza di una riduzione degli stanziamenti bellici dei principali governi occidentali.
A questo punto, in mancanza di un forte intervento pubblico, potrebbe succedere il peggio. I vari governi, di centrodestra e di centrosinistra, hanno abbandonato da molto tempo l’idea stessa di politica industriale ed intervengono solo con provvedimenti tampone ed improvvisati a fronte del manifestarsi di qualche emergenza grave, salvo il giorno dopo dimenticare la questione, sino almeno alla crisi successiva del paziente. Pensiamo invece che dovrebbe essere pianificata una strategia generale di intervento, che riguardi tutti i casi attuali e quelli che probabilmente si manifesteranno in futuro.
Come è noto, in Francia è stato perfezionato un accordo tra il governo di quel paese ed una impresa cinese, la DongFeng, per venire in soccorso della Peugeot-Citroen (PSA), che naviga in acque tempestose. I due partner interverranno nel capitale della società, ognuno con il 15% del totale, mentre il residuo 60% sarebbe lasciato, almeno per il momento, al mercato e alla famiglia Peugeot. Intanto sempre il governo francese, dopo il successo del progetto Airbus, ha proposto ai tedeschi di unire le forze nel settore delle energie rinnovabili. Nulla impedisce nella sostanza che interventi di questo tipo siano avviati anche da noi.
In effetti, molte grandi e medio-grandi imprese, quelle sopra citate ed altre ancora, non hanno da noi, in tutto o in parte, le dimensioni adeguate, le risorse finanziarie, i mercati, le capacità strategiche per sopravvivere in maniera adeguata, né sembrano esservi degli altri gruppi nazionali che siano in grado da soli di rilanciare adeguatamente le loro attività. L’unica soluzione in qualche modo praticabile appare, come nel caso francese, quella di varare una politica di alleanze con gruppi esteri, europei od asiatici, per fare in modo che le nostre imprese sopravvivano. Tali gruppi, che dovrebbero portare competenze, risorse finanziarie ed organizzative e mercati adeguati, potrebbero prendere delle partecipazioni di minoranza importante o anche di controllo, mentre l’operatore pubblico dovrebbe comunque entrare nell’assetto proprietario per assicurare alcuni interessi nazionali di base, dalla tutela dell’occupazione a quella del mantenimento nel nostro paese di una presenza adeguata. Ad intervenire potrebbe essere direttamente il Tesoro o una società in qualche modo pubblica, quale la Cassa Depositi e Prestiti, indirizzando tale organismo verso una maggiore focalizzazione strategica e un più incisivo controllo.
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