Brutti ma buoni la seconda vita dei frutti scartati

Brutti ma buoni la seconda vita dei frutti scartati

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TROPPO brutti per essere venduti ma buoni da mangiare. Sono quei frutti e quegli ortaggi che marciscono nei campi o nei magazzini invece di finire, confezionati e etichettati, sui banchi del supermercato. Sprecati perché non raggiungono i requisiti estetici stabiliti dall’Unione europea, che detta forma, peso e colore per la commercializzazione: mele troppo piccole o con i toni anomali, fragole senza peduncolo, cespi di lattuga con il torsolo reciso male o grappoli di pomodori con le foglie attaccate. Ora però le piccole cooperative e le campagne antispreco vogliono salvarle: per gli agrumi dalla buccia rovinata o per i peperoni dalla forma irregolare, dicono, un’altra vita è possibile.
Un primo esperimento, nato in Portogallo, è finito sulle pagine del New York Times: si chiama Frutta Feia, “frutta
brutta”, ed è una cooperativa di consumo. «Vogliamo trovare una collocazione a un prodotto che non ce l’ha, la verdura e la frutta non calibrata che la grande distribuzione non espone» spiega al telefono da Lisbona Andrea Battocchi, 30 anni, un architetto di Monza che nove mesi fa con alcuni soci ha ricevuto un finanziamento per il progetto. «L’idea è combattere lo spreco alimentare e per questo compriamo i prodotti scartati e poi li vendiamo, a prezzo più basso, ai nostri 350 soci nei due punti di raccolta aperti finora. Stiamo andando bene, contiamo di espanderci in altre città e, un domani, esportare il modello negli altri Paesi europei visto che lo spreco di prodotti freschi, ma buoni, è comune a tutti».
Sono dieci i prodotti che devono rispettare i dettami comunitari per finire nei negozi: mele, agrumi, kiwi, insalate come lattughe, indivie o scarole, pesche, pere, fragole, peperoni, uva da tavola e pomodori. Erano 36 fino a qualche anno fa, poi la lista è stata ridotta a quelle varietà che da sole occupano un quarto del mercato. Da quel momento carciofi, ciliegie, albicocche, fagioli, cavoletti di Bruxelles e tanti altri sono stati liberati dagli standard.
In Italia si dedica al problema Last minute market, l’iniziativa che quantifica gli sprechi di cibo legati alla grande distribuzione e ne promuove il riuso nella solidarietà. «Per tre anni con la provincia di Bologna abbiamo raccolto la frutta e la verdura che rimanevano nei campi ed era una quantità incredibile» spiega il presidente Andrea Segrè, coordinatore del piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare lanciato con il ministero dell’Ambiente. «Le ragioni sono due. Quella estetica: noi consumatori ormai pensiamo che un frutto è buono solo se perfetto, ma non è vero. Chi l’ha detto che una carota con due gambi è meno saporita? Questa logica del bello a tutti i costi ci fa perdere cibo utile. E poi manca il mercato: si produce più del dovuto e non si sa a chi vendere. Eliminare le storture deve diventare un obiettivo istituzionale: se c’è la qualità questo spreco è assurdo».
Eppure in Italia, secondo Coldiretti, gli sbocchi per i prodotti bocciati ci sono già. «Non si butta via niente: la mela troppo piccola è utile nel succo di frutta o nella purea degli strudel» spiega il responsabile ortofrutta Lorenzo Bazzana. «D’altra parte chi se la mangia una mela del diametro di 5 centimetri, la grandezza minima per la commercializzazione? Tolto il torsolo e la buccia non resta niente». Gli standard europei, dice, sono anzi una garanzia, un parametro per dare un giusto prezzo. «Altrimenti la fregatura finisce a tavola: se non scarto una carota bitorzoluta appena raccolta, poi la butto in cucina. Mica è facile pelarne una con due gambi!».



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