Botanica. La rivoluzione coltivata

Botanica. La rivoluzione coltivata

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Che cosa signi­fica attri­buire a una pianta un tempo sto­rico? E, cioè, non solo un tempo bio­lo­gico, ma anche sociale e poli­tico? La vita sociale delle piante è ora al cen­tro di un’indagine sul rap­porto tra eco­lo­gia poli­tica e pra­ti­che arti­sti­che, svi­lup­pata nel con­te­sto della mostra Vege­ta­tion as a Poli­ti­cal Agentpresso il Parco Arte Vivente-Pav di Torino, che si terrà dal 30 mag­gio al 31 dicembre.

Se è vero che le forme della disob­be­dienza sociale sono all’origine stret­ta­mente inter­con­nesse alla pian­ta­gione colo­niale, come una sorta di pro­to­tipo del con­flitto desti­tuente, per­ché non par­tire da un ele­mento appa­ren­te­mente mar­gi­nale come la pianta, per resti­tuire una sto­ria sociale a un ambito pre­sunto spon­ta­neo, come quello natu­rale? Per­ché non met­tere a punto un metodo «archeo­lo­gico» anche per la vege­ta­zione, nel momento in cui que­sta si trova ancora una volta al cen­tro della con­tesa tra nuove gerar­chie tec­no­cra­ti­che e altret­tanto nuovi biso­gni di vita e d’ambiente?

GIAR­DINI SOVVERSIVI

Le piante, con­tro la vec­chia anti­no­mia che oppo­neva natura e cul­tura, da sem­pre sono state cari­cate di un signi­fi­cato poli­tico. Basti pen­sare al ruolo cen­trale gio­cato dalla botanica nella prima forma di glo­ba­liz­za­zione eco­no­mica nel XVII e XVIII secolo quando, attra­verso le pian­ta­gioni colo­niali e i mer­cati sul mare, si defi­ni­rono sistemi di con­trollo e con­di­zioni di espro­pria­zione e sfrut­ta­mento nella lotta per il mono­po­lio delle spe­zie. Ma, allo stesso tempo, forme migra­to­rie delle spe­cie, nuove fer­ti­liz­za­zioni e innesti.

Il grande dispo­si­tivo messo a punto nelle pian­ta­gioni colo­niali, nel momento di con­so­li­da­mento del pro­getto impe­riale dell’Europa bianca tra Sei e Set­te­cento, sarà reim­por­tato in Occi­dente con l’inizio della moder­nità indu­striale, dove la spe­cia­liz­za­zione di unità di pro­du­zione delle mono­col­ture, di unità abi­ta­tiva e di unità stan­dar­diz­zata delle pro­ce­dure lavo­ra­tive, ritor­nerà nel modello della fab­brica for­di­sta moderna. L’idea della città-giardino, per esem­pio, quale inse­dia­mento ope­raio non fa altro che tra­dire que­sta matrice spa­ziale, fuori dalle reto­ri­che rifor­mi­ste di Ebe­ne­zer Howard.

Inol­tre, è sem­pre nel periodo colo­niale che piante come la vani­glia, la canna da zuc­chero, la banana, la manioca, il cauc­ciù, tra le altre, pas­sano da curio­sità natu­rali a fonti di accu­mu­la­zione e di pro­fitto eco­no­mico. Ma è con le attuali con­di­zioni bio­po­li­ti­che che la vege­ta­zione ritorna ad avere un forte ruolo den­tro i pro­cessi di costru­zione sociale. Di fatto, in tutta que­sta sto­ria, le piante hanno assunto anche una fun­zione di ever­sione rispetto all’esercizio del potere. E tale fun­zione è quella che ci interessa.

La teo­riz­za­zione di un approc­cio eco­so­fico alla realtà da parte di Félix Guat­tari, fin dagli anni Ottanta, non è altro che una delle rispo­ste pos­si­bili e anti­ci­pa­to­rie al regime con­tem­po­ra­neo. Con le tre eco­lo­gie cri­ti­che sap­piamo che non è più vero­si­mile dis­so­ciare lo psi­chico dall’ambiente e que­sto dal sociale. Si inter­con­net­tono qui tre livelli di eco­lo­gia: il regi­stro dell’ambiente, quello sociale e delle sog­get­ti­vità. Non è più pos­si­bile opporsi solo dall’esterno, ma è diven­tato più neces­sa­rio che mai con­trap­porsi anche «sul piano di un’ecologia men­tale» all’interno della vita quo­ti­diana, a tutti i livelli del sociale.

In che modo, oggi, si espri­mono le azioni di resi­stenza crea­tiva? È ancora pos­si­bile inten­dere la pro­du­zione arti­stica come altro dai pro­cessi di mer­ci­fi­ca­zione in corso? L’ecologia sociale è un per­corso di fuo­riu­scita dal para­digma antro­po­cen­trico? Come può la vege­ta­zione con­tri­buire a un pro­cesso di de-programmazione: archi­tet­to­nico, sociale, eco­no­mico? Il lavoro sull’ecosofia è radi­cal­mente diverso dal con­cetto di «eco­lo­gia» messo all’opera nel nostro tempo e che appare, per alcuni, così inno­va­tivo. Oppure l’ecologia non è altro che una nuova fase di svi­luppo delle forme del capi­ta­li­smo attuale.

Pro­prio per­ché inte­ra­mente gio­cato sul dop­pio regi­stro di sto­ria e attua­lità il pro­getto Vege­ta­tion as a poli­ti­cal agent si arti­cola su due aree sim­bo­li­che del ter­ri­to­rio tori­nese: da un lato, il Pav fon­dato da un arti­sta come Piero Gilardi per essere un cen­tro con­tem­po­ra­neo di spe­ri­men­ta­zione con il vivente e il vege­tale; dall’altro lato, l’Orto Bota­nico dell’Università di Torino, già attivo nella metà del Set­te­cento come labo­ra­to­rio uni­ver­si­ta­rio. Carlo Allioni, che lo reg­geva, era in diretto con­tatto con il grande bota­nico Lin­neo da cui impor­tava i sistemi di cono­scenza e cata­lo­ga­zione delle piante. Il ruolo della botanica e quello della colo­nia in quel momento non pos­sono essere dis­so­ciati dal grande pro­getto impe­riale dell’uomo «bianco». Le due pola­rità risul­tano sto­ri­ca­mente chiare: da un lato un para­digma scien­ti­fico e clas­si­fi­ca­to­rio, dall’altro quello che – con Guat­tari – potremmo defi­nire «para­digma estetico».

Vege­ta­tion as a poli­ti­cal agent svi­luppa, sullo stesso piano, inter­venti arti­stici e archi­tet­to­nici, illu­stra­zioni e cam­pioni scien­ti­fici, docu­menti d’archivio, con­tri­buti let­te­rari e fil­mici pro­dotti in una grande varietà di con­te­sti cul­tu­rali e sociali. All’interno e all’esterno del Pav sono inda­gati i rap­porti tra agro­no­mia e movi­menti popo­lari nel film di Filipa César – che rivi­sita il pae­sag­gio di lotte poli­ti­che della Gui­nea Bis­sau — e nei docu­menti rela­tivi alla figura di Amil­car Cabral — agro­nomo e rivo­lu­zio­na­rio gui­neense che portò la Guinea-Bissau e le isole di Capo Verde all’indipendenza dal Por­to­gallo; il ruolo dell’attivismo verde attra­verso la pre­senza di Mel King nel pro­getto di Nomeda e Gedi­mi­nas Urbo­nas, i mura­les recenti di Emory Dou­glas — uno tra gli espo­nenti del Black Power ame­ri­cano — a difesa del pro­le­ta­riato rurale zapa­ti­sta del Chia­pas. Figure sto­ri­che come l’ungherese Imre Bukta che si defi­niva «arti­sta agri­col­tore» e la cali­for­niana Bon­nie Ora Sherk fon­da­trice nel ’74 a San Fran­ci­sco della fat­to­ria Cros­sroad Com­mu­nity (un cen­tro comu­ni­ta­rio, una scuola senza pareti, un tea­tro umano e ani­male, pen­sato per creare un modello di vita radi­cale a carat­tere eco­lo­gico) sono infine testi­moni negli anni ’70 di forme pio­nie­ri­sti­che del rap­porto tra arte e agri­col­tura sotto le oppo­ste pola­rità della Guerra Fredda.

RIFUGI SITE SPECIFIC

La mostra con­voca anche forme di pro­du­zione spe­ri­men­tale come assem­blee aperte, impianti di col­ture vege­tali, modelli di agri­col­tura urbana e strut­ture abi­ta­tive tem­po­ra­nee che costi­tui­scono le prin­ci­pali stra­te­gie d’intervento, sep­pur con moda­lità da defi­nire di volta in volta. Dai campi di pro­te­sta tree sit­ting nel Regno Unito inve­sti­gati da Ade­lita Husni-Bey al rivo­lu­zio­na­rio sistema di rici­clag­gio dei rifiuti pro­po­sto dal pio­niere George Chan, al cen­tro della ricerca di Fer­nando García-Dory. Nella corte del Pav pren­dono forma due instal­la­zioni ambien­tali site-specific: gli archi­tetti RozO (Phi­lippe Zour­gane & Séve­rine Rous­sel) rea­liz­zano laSala Verde, una costru­zione di tipo ver­na­co­lare che diventa un rifu­gio vege­tale per­cor­ri­bile, rea­liz­zato con bambù e foglie di palma intrec­ciate in loco da un con­ta­dino delle Isole della Réu­nion, ospita al suo interno, una serie di docu­men­ta­zioni foto­gra­fi­che sulle ex-colonie fran­cesi del Viet­nam e dell’Algeria.

La vege­ta­zione è intesa come agente poli­tico nei pro­cessi di con­trollo del ter­ri­to­rio nel mondo colo­niale e post­co­lo­niale del Sud. Il col­let­tivo ame­ri­cano Cri­ti­cal Art Ensem­ble pro­pone Ste­rile field: una por­zione di ter­reno, in parte rica­vata da un lembo di strato erboso del parco del Pav, lavo­rata con il metodo roun­dup ready, un pro­ce­di­mento chi­mico di diserbo inva­sivo che, su lunga durata, distrugge la biodiversità.

LA BOTANICA DEGLI «INVASORI»

Vege­ta­tion as a poli­ti­cal agent sol­leva inter­ro­ga­tivi sulla riven­di­ca­zione della sog­get­ti­vità crea­tiva attra­verso pra­ti­che di orto­col­tura, come nelle spe­ri­men­ta­zioni di Ayreen Ana­stas & Rene Gabri con l’immissione nel mer­cato di semi bio­lo­gici per il ri-equilibrio del suolo, o Claire Pen­te­cost con una serie di car­to­line postali sulla cir­co­la­zione del mais tran­sge­nico in Mes­sico. L’artista slo­vena Mar­je­tica Potrc, da sem­pre impe­gnata in pro­cessi par­te­ci­pa­tivi, ha creato un orto comu­ni­ta­rio auto-organizzato e un parco pub­blico a Soweto in Suda­frica. Daniel Hal­ter lavora con piante da fiore che si sono radi­cate nel pae­sag­gio ita­liano ma che sono ori­gi­na­rie del Suda­frica, pro­po­nendo così un sto­ria di colo­niz­za­zione inversa dell’Europa da parte di «inva­sori» africani.

Tre sagome di pan­noc­chie di mais in gom­ma­piuma reg­gono uno stri­scione con la scritta «O.G.M. Free». Sono espres­sione di azioni e imma­gi­nari col­let­tivi sui temi della rivo­lu­zione verde tra­sfe­riti nelle maschere e nei costumi dise­gnati da Piero Gilardi e indos­sati nelle ani­ma­zioni tea­trali con­tro l’impiego di Ogm nelle col­ti­va­zioni di mais, a par­tire da quel lungo filone delle pro­te­ste di strada che coin­volge l’artista, già dalla fine degli anni Ses­santa. «Ora serve una volontà poli­tica, quindi sog­get­tiva, per costrin­gere il potere neo­li­be­ri­sta a met­tere in atto la con­ver­sione eco­lo­gica», sostiene Gilardi.

Anche la lotta No Tav, nel suo farsi carico di una crea­ti­vità dif­fusa, lavora in una con­creta pro­spet­tiva eco­so­fica men­tre viene accu­sata di eco­ter­ro­ri­smo: basti pen­sare alla sen­tenza inam­mis­si­bile per i quat­tro atti­vi­sti del can­tiere di Chio­monte. Ancora una volta, dun­que, dob­biamo con­fron­tarci con il nostro diritto di dis­sen­tire e con la sua più totale nega­zione. Allora, dice­vamo all’inizio: una volta c’erano le colo­nie e il potere coloniale…


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