A Bologna chi di Coop ferisce, di Coop perisce

by redazione | 14 Maggio 2014 10:52

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Palazzo Paleotti, al 25 di via Zam­boni, nel cuore della città uni­ver­si­ta­ria bolo­gnese, è la prima sala stu­dio mul­ti­me­diale in Europa, uno dei poli d’eccellenza dell’azienda Unibo. Chiara, 38 anni, una lau­rea in sto­ria medie­vale con spe­cia­liz­za­zione in archeo­lo­gia e una qua­li­fica di archi­vi­stica e cata­lo­ga­zione, lavora al ser­vi­zio di assi­stenza biblio­gra­fica: “Un ser­vi­zio rivolto a un’utenza mul­ti­di­sci­pli­nare di stu­denti e docenti che vogliono impa­rare a uti­liz­zare le ban­che dati che l’università mette a dispo­si­zione. Ci sono 250 posta­zioni da cui si può acce­dere alle 320 ban­che dati a cui l’università è abbo­nata. Io gesti­sco que­sto ser­vi­zio, nel senso che spiego come uti­liz­zarle a chi ne ha bisogno”.

Nel 2012, quando Chiara ha comin­ciato a lavo­rare era stata assunta come impie­gata d’archivio di primo livello da una coo­pe­ra­tiva (Team Ser­vice) che gestiva i ser­vizi spe­cia­liz­zati per Unibo. Sei ore di lavoro al giorno, per cin­que giorni set­ti­ma­nali e uno sti­pen­dio di poco più di mille euro al mese. Poi il 27 set­tem­bre del 2013, un tele­gramma le annun­cia il licen­zia­mento: la coo­pe­ra­tiva per cui lavora ha perso l’appalto. Tut­ta­via, Chiara e gli altri 13 del polo mul­ti­me­diale non per­dono il lavoro. Unibo li ras­si­cura: sarete assor­biti dalla coop che ha vinto l’appalto. È Coop­ser­vice: “uno dei player nazio­nali nella pro­get­ta­zione, ero­ga­zione e gestione di ser­vizi inte­grati”, con­ven­zio­nata con Con­sip, la società per azioni mini­ste­riale a cui la pub­blica ammi­ni­stra­zione deve rivol­gersi per acqui­stare alcuni, spe­ci­fici, servizi.

Inspie­ga­bil­mente Unibo si è rivolta al Con­sip per ser­vizi infor­ma­tici e biblio­gra­fici che l’agenzia non vende. Così, ha acqui­stato ser­vizi di vigi­lanza e da tec­nici infor­ma­tici e biblio­gra­fici i lavo­ra­tori di palazzo Paleotti si sono ritro­vati ad essere inqua­drati come por­tieri, con un note­vole peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni retri­bu­tive oltre che senza aver rico­no­sciute le pro­fes­sio­na­lità messe al lavoro.

“È un gioco sporco – evi­den­ziano i lavo­ra­tori – per­ché se Con­sip non vende ser­vizi tec­nici avan­zati, l’università dovrebbe ban­dire un con­tratto esterno come si fa in altre uni­ver­sità, e non com­prare, a nostro disca­pito, quello che vende Con­sip”. Ma l’ateneo fa orec­chie da mer­cante, il pro­ret­tore Nico­letti, con­ti­nua a dichia­rare alla stampa che l’azienda uni­ver­si­ta­ria ha le mani legate visto che per legge deve pas­sare attra­verso Consip.

Da una coop all’altra: la con­ti­nua ero­sione di diritti e garan­zie
A palazzo Paleotti, il cam­bio di appalto ha voluto dire un pro­fondo peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di lavoro e del sala­rio. E, all’iniziale entu­sia­smo per la con­ti­nuità lavo­ra­tiva ha fatto rapi­da­mente seguito la delu­sione. “La prima busta paga del nuovo con­tratto mi ha fatto prima arrab­biare, poi mi ha lasciato nelle dispe­ra­zione. Da un giorno all’altro mi sono ritro­vata con una busta paga dimez­zata, di appena 580 euro, ma a parità di man­sioni e ore di lavoro … da quel giorno io devo cal­co­lare tutte le mie spese. Que­sto sti­pen­dio non basta nean­che per pagare l’affitto e mi sono dovuta orga­niz­zare con altri lavori, con tutto un carico di stan­chezza fisica e que­stioni psi­co­lo­gi­che non indifferente”.

Quella di Chiara è solo una delle sto­rie di vita e di lavoro di chi svolge ser­vizi spe­cia­liz­zati per l’università di Bolo­gna. Il peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni lavo­ra­tive ad ogni cam­bio appalto è una vec­chia sto­ria, tant’è che già nel 2011, i lavo­ra­tori si erano mobi­li­tati. Gli edi­fici che lungo via Zam­boni ospi­tano aule, biblio­te­che e sale stu­dio, fun­zio­nano, nei fatti, gra­zie alla pre­senza costante di una tren­tina di lavo­ra­tori in subap­palto, sud­di­visi tra i vari edi­fici, che affian­cano alcuni altri lavo­ra­tori strut­tu­rati (ovvero assunti diret­ta­mente da Unibo).

Le loro man­sioni sono piut­to­sto diver­si­fi­cate. “Abbiamo man­sioni di por­ti­ne­ria, vigi­lanza, con­trollo dei badge, front-office. Rispon­diamo al tele­fono, smi­stiamo la posta ma fac­ciamo anche tanta assi­stenza tec­nica e infor­ma­tica”. Nel con­tratto, però, pre­cisa Fran­ce­sco che lavora da cin­que anni nella por­ti­ne­ria del 34 di via Zam­boni, “non è pre­vi­sta l’assistenza tec­nica, anche se quando abbiamo ini­ziato a lavo­rare abbiamo dovuto accor­dare all’ateneo anche la nostra dispo­ni­bi­lità a svol­gere man­sioni non pre­vi­ste contrattualmente”.

Luigi, con una lau­rea in filo­so­fia quasi in tasca, lavora da otto anni nella por­ti­ne­ria di scienza della for­ma­zione, al 32 di via Zam­boni. “Il mio com­pito sarebbe sem­pli­ce­mente aprire le aule, tut­ta­via ad ogni cam­bio d’ora i pro­fes­sori ven­gono a riti­rare delle vali­gette con il mate­riale tec­nico: com­pu­ter, video­pro­iet­tore, impianti audio, ecce­tera, e il mio lavoro non fini­sce qui. L’utilizzo di que­ste stru­men­ta­zioni va seguito e pun­tual­mente i pro­fes­sori scen­dono a chie­dere aiuto. Se le mac­chine vanno in blocco sono io che devo met­terle a posto”. Ma c’è dell’altro. “Per con­tratto noi siamo discon­ti­nui” aggiunge Davide, che lavora nella por­ti­ne­ria del civico 38. “Un con­tratto che pre­vede la discon­ti­nuità è quello che si applica a chi fa guar­dia­nato o custo­dia di un can­cello, di una zona par­cheg­gio, o ad esem­pio nell’area delle fiere, per cui c’è un lasso di tempo fra quando si apre e quando si chiudi in cui non c’è niente da fare e viene retri­buito in modo dif­fe­rente. Noi invece, per tutta la durata del nostro ora­rio di lavoro, svol­giamo molte man­sioni. Il pro­blema è quindi che a noi viene richie­sto un tempo di lavoro più lungo. Per via della discon­ti­nuità il nostro full-time passa da 40 a 45 settimanali”.

Un enorme carico di lavoro a cui si aggiungo gli straor­di­nari che ognuno dei lavo­ra­tori è costretto a fare per por­tare a casa uno sti­pen­dio appena al diso­pra della soglia di povertà. Fran­ce­sco ad esem­pio lavora 11 ore al giorno dal lunedì al venerdì: “9 ore sono ordi­na­rie, le altre 2 sono di straor­di­na­rio. Ma que­sto è l’unico modo che ho per por­tare a casa uno sti­pen­dio di circa mille euro”.

Anche nel caso di que­sti lavo­ra­tori, il cam­bio di appalto, nel 2011, era costato non poco in ter­mini di sala­rio. “Nel pas­sag­gio a Coop­ser­vice – pre­cisa Davide – abbiamo avuto qual­che miglio­ra­mento, nel senso che la coop pre­ce­dente (Rear) non ci pagava i primi tre giorni di malat­tia e io ero stato costretto a fir­mare per la rinun­cia del mio tfr, Ma dal punto di vista del sala­rio le cose sono peg­gio­rate deci­sa­mente”. “A marzo del 2011 – aggiunge Luigi – la mia busta paga, per 40 ore set­ti­ma­nali, era di 1.213 euro, più 100 euro in buoni pasto. Il mese suc­ces­sivo, con Coop­ser­vice, ho tro­vato in busta paga meno di mille euro, le ore set­ti­ma­nali erano diven­tata 45 per via della discon­ti­nuità, le man­sioni tec­ni­che (circa 200 euro) non erano più rico­no­sciute e anche i buoni pasto erano stati tagliati”.

Il para­dosso è che per que­sto ser­vi­zio l’ateneo paga a Coop­ser­vice, 19.80 euro l’ora, 2 euro in più del pre­ce­dente appalto, eppure ai lavo­ra­tori viene cor­ri­spo­sta una paga ora­ria di circa 5 euro. “Anche al netto dei costi di gestione, com’è pos­si­bile che ci arriva in tasca appena un quarto di quanto Unibo paga per il nostro lavoro?” con­ti­nuano a chie­dersi i lavo­ra­tori che da qual­che mese sono in stato di agitazione.

“No Coop. Si dignità”
Lunedì 31 marzo 2014, c’è stato il primo scio­pero. La par­te­ci­pa­zione, ben al di là delle aspet­ta­tive, è stata altis­sima. Anche molti degli strut­tu­rati hanno soli­da­riz­zato con la lotta. E, ben­ché via Zam­boni di lotte negli anni ne abbia viste tante, lo sce­na­rio, quella mat­tina si pre­sen­tava piut­to­sto ine­dito: l’intera via bloc­cata e pic­chet­tata, il por­tone di palazzo Paleotti (luogo sim­bolo della mobi­li­ta­zione) inca­te­nato, gli ingressi del 34 e del 36 non aprono nean­che i bat­tenti per­ché tutti i lavo­ra­tori sono in sciopero.

Al civico 38 un folto pic­chetto di lavo­ra­tori, stu­denti e pre­cari non si limita sem­pli­ce­mente ad impe­dire l’ingresso, comu­nica le ragioni della lotta, assi­cu­ran­dosi al con­tempo che i disagi, pur tut­ta­via indi­spen­sa­bile per col­pire l’immagine dell’ateneo e detur­nare la rap­pre­sen­ta­zione dell’eccellenza che i ver­tici acca­de­mici con­ti­nuano a pro­porre, siano, tutto som­mato, con­te­nuti almeno per gli stu­denti. Lo scio­pero pro­se­gue per 4 giorni. Il colpo d’occhio su via Zam­boni rimane pres­so­ché immu­tato: bloc­chi, pic­chetti e momenti di comu­ni­ca­zione. Alcuni docenti deci­dono di tenere in piazza le lezioni come forma di soli­da­rietà attiva.

A mobi­li­tarsi non sono solo i lavo­ra­tori di palazzo Paleotti, che hanno il tri­ste pri­mato di una paga base di 2.80 euro l’ora, la mobi­li­ta­zione inte­ressa tutti i dipen­denti di Coop­ser­vice, pre­oc­cu­pati che nell’orientamento all’”armonizzazione” dei con­tratti nella pub­blica ammi­ni­stra­zione pos­sano subire, al cam­bio d’appalto pre­vi­sto per il mese di luglio, la stessa sorte dei loro col­le­ghi del polo multimediale.

“Non vogliamo più farci fre­gare” afferma con­vinto Luigi. “Nel 2011, al momento del pre­ce­dente cam­bio di appalto, abbiamo fatto tavoli tec­nici, c’è stato un ten­ta­tivo di con­ci­lia­zione con il pre­fetto che poi è fal­lito per­ché Coop­ser­vice non si pre­sen­tava agli incon­tri, e alla fine non è cam­biato niente. Per que­sto abbiamo pen­sato: que­sta volta vi pic­chet­tiamo tutto come a Granarolo!”.

“Abbiamo quindi costruito un’assemblea con i col­let­tivi Hobo e Cua che sono attivi in ate­neo”, aggiunge Chiara, “tutte – incalza Davide – per­sone che cono­sciamo benis­simo, che vediamo tutti i giorni e che hanno capito che non si trat­tava solo di fare soli­da­rietà, ma di costruire un per­corso di lotte più com­ples­sivo che tenesse conto anche del futuro lavo­ra­tivo dei gio­vani lau­reati di que­sto ateneo”.

Alla prima assem­blea, all’inizio di marzo, hanno par­te­ci­pato anche i lavo­ra­tori in lotta con­tro il colosso bolo­gnese del casea­rio, Gra­na­rolo, che insieme a Lega­coop (che assume i fac­chini che lavo­rano in subap­palto per Gra­na­rolo), da circa un anno, porta avanti un brac­cio di ferro con una cin­quan­tina di lavo­ra­tori licen­ziati senza giu­sta causa che adesso chie­dono il rein­te­gro. “Sen­tire dalla voce diretta di chi sta nelle lotte che l’unico modo per scon­fig­gere il ricatto di per­dere il lavoro è quello di alzare la testa e lot­tare, met­tendo da parte la paura, è stato per noi importantissimo”.

È Luigi a par­lare ma gli lavo­ra­tori pre­senti annui­scono. Se c’è, in que­ste lotte, un dato di gene­ra­liz­za­zione, quan­to­meno in potenza, è pro­prio il rifiuto di un lavoro che anni­chi­li­sce. “Le coo­pe­ra­tive ti tol­gono i sogni” afferma Davide scon­for­tato. “Non puoi orga­niz­zare né vivere la tua vita quando sei costretto a lavo­rare per 11 ore al giorno. Ed è assurdo che l’università, che dovrebbe dare degli esempi posi­tivi di dignità sul lavoro, paghi i lavo­ra­tori 3 euro l’ora”, aggiunge Francesco.

Assu­mendo lo slo­gan: “No coop. Si dignità”, dove dignità signi­fica soprat­tutto rifiuto dello sfrut­ta­mento, la mobi­li­ta­zione, a sin­ghiozzo, è andata avanti per tutto il mese di marzo e di aprile: blocco delle man­sioni, momenti di comu­ni­ca­zione in strada e durante le lezioni, assem­blee pub­bli­che e un’irruzione, il primo mag­gio, nella piazza bolo­gnese della Cgil, che i lavo­ra­tori indi­vi­duano come indi­scusso com­plice del sistema delle coo­pe­ra­tive (è il sin­da­cato che rap­pre­senta gli inte­ressi dei lavo­ra­tori – ben­ché non abbia iscritti tra i lavo­ra­tori in lotta – nelle trat­ta­tive tra Unibo e Coopservice).

Anche il mini­stro Poletti che del sistema delle coo­pe­ra­tive è una vec­cia cono­scenza, ai ver­tici di Lega­coop fino al suo inca­rico mini­ste­riale, è stato con­te­stato dai lavo­ra­tori di Coop­ser­vice quando a Rimini è inter­ve­nuto a “Le gior­nate del lavoro” orga­niz­zate dalla Cgil all’inizio di mag­gio. In entrambi i casi i lavo­ra­tori hanno espo­sto delle ban­diere con un logo NoCoop.

“Dire No coop – ci spie­gano – vuol dire com­bat­tere un sistema che vive del ribasso del costo del lavoro. Un sistema che negli anni ha inne­scato un pro­cesso di cre­scente sfrut­ta­mento e di cui è sem­pre molto dif­fi­cile indi­vi­duare le respon­sa­bile. Nel nostro caso Unibo si lava le mani e dice che la respon­sa­bi­lità è di Coop­ser­vice, Coop­ser­vice dice di essere in regola per­ché ha il con­senso della Cgil e gli unici a rimet­terci siamo noi, visto che poi alla fine il con­tratto che que­sti signori hanno fir­mato non arriva nean­che a 3 euro l’ora”.

Nel corso di que­sti due mesi i ver­tici dell’Unibo, insieme a Copp­ser­vice, Cgil e Cisl hanno pro­vato a dare delle rispo­ste e, in busta paga i lavo­ra­tori di palazzo Paleotti hanno tro­vato un pic­colo miglio­ra­mento. La par­tita resta aperta. “Non ci accon­ten­tiamo delle bri­ciole – ripe­tono i lavo­ra­tori. L’aumento è solo una pic­cola inte­gra­zione per le man­sioni tec­ni­che men­tre il pro­blema è strut­tu­rale”. Inol­tre l’integrazione non inte­ressa gli altri lavo­ra­tori in lotta. Quindi la mobi­li­ta­zione prosegue.

La riven­di­ca­zione ultima è l’abolizione del ricorso al lavoro in subap­palto dalle coo­pe­ra­tive. Come spiega Anto­nella Zago della Flaica-Cub, il sin­da­cato che sta appog­giando la mobi­li­ta­zione: “ci sono molte coo­pe­ra­tive ormai com­ple­ta­mente fuori con­trollo che sono oggi la prima causa dello sfrut­ta­mento. E noi le vogliamo fuori dall’università”. Nel mezzo ci stanno tutta una serie di riven­di­ca­zioni più spe­ci­fi­che, prima fra tutte l’applicazione di un con­tratto di lavoro ade­guato alle man­sioni svolte, e salari congrui.

Ieri e oggi sono stati lan­ciati altri due giorni di scio­pero con bloc­chi e pic­chetti. Via Zam­boni si pre­para a vivere altri giorni di lotta. I lavo­ra­tori sono deter­mi­nati ad andare avanti a oltranza con la mobi­li­ta­zione e ripeto con con­vin­zione: “Fino alla vit­to­ria”. Pro­prio come si diceva davanti ai can­celli di Granarolo.

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