by redazione | 13 Maggio 2014 9:02
È il 5 maggio quando Boko Haram (dal pidgin inglese book, libro e dall’arabo haram, proibito) ottiene quell’attenzione internazionale cui tanto ambisce. All’attacco nella città di Gamboru nel nord-est della Nigeria, costato la vita a 300 persone, segue infatti la diffusione di un video di un’ora in cui il leader dell’organizzazione, conosciuta anche col nome di Jama’atu Ahlul Sunna Lidda’awati Wal Juhad (Comunità dei discepoli per la propagazione della guerra santa e dell’islam), rivendica il rapimento di 276 studentesse del liceo di Chibok, avvenuto tre settimana prima (nel frattempo, 53 ragazze sono riuscite a fuggire).
Data poi del 12 maggio un video più breve, dove emergono precise richieste (dallo scarceramento di esponenti del gruppo a somme di denaro) e si mostra una metà delle adolescenti prigioniere, velate e convertite all’islam.
Colpisce, nei video, l’attitudine di Abubakar Shekau: in nome di Allah, il personaggio si arroga il diritto, da un lato, di vendere le ragazze come merce in Ciad e Camerun, fissandone il prezzo a 12 dollari, dall’altro, di destinarne alcune a un matrimonio farsesco per soddisfare le esigenze sessuali momentanee dei suoi seguaci. Inaugura così un nuovo spazio di azione e di guadagno per gli estremisti musulmani: il prossenetismo. Il mercato della prostituzione va a sommarsi ai traffici illeciti cui già si dedicano alcuni appartenenti al gruppo. Abubakar è abbigliato in tenuta mimetica, si esprime in un misto di haussa, inglese e arabo. Le adolescenti, a suo dire, meritano la riduzione in schiavitù perché colpevoli di volersi istruire in modo moderno.
Ma chi è questo capo jihadista? A quali ambiti appartiene Boko Haram che, fra il 2010 e il 2014, ha ucciso circa 2mila nigeriani, musulmani e non, colpendo istituzioni pubbliche (scuole, mercati, chiese, caserme) e seminando il terrore soprattutto nel nord? Abubakar Shekau si considera l’erede di un celebre predicatore, Mohamed Yusuf (giustiziato dall’esercito nel 2009), il quale – prima di radicalizzarsi – faceva appello agli insegnamenti di Cheikh Jafar Adam. Negli anni 2000, Mohamed Yusuf intraprende il suo apostolato dalla regione natale, Yobe. Formatosi in Arabia Saudita, influenzato da correnti sciite e imam militanti di origine egiziana, il «maestro» esalta un islam salafita e populista nel nord-est del paese, trascurato dal governo federale.
Il discorso di Mohamed Yusuf si stacca da posizioni pietiste: per lui, l’applicazione rigida della sharia esprime il solo ideale conforme ai precetti del Profeta e, dunque, ogni maomettano, per vivere la sua fede, ha il diritto-dovere di risiedere in una società modellata sui principi fissati dal Corano e dalla Sunna (tradizione). Condivide il suo rifiuto per l’Occidente e quanto appare estraneo all’islam con altre correnti, come il movimento Maitatsine (sorto negli anni 1980); ma si contrappone sia ad associazioni religiose quali Izala (o Izalatu-l-bid’a wa iqamatu-s-sunna, il cui nome sottolinea il rifiuto di ogni innovazione o pratica sincretica, a favore del rispetto rigoroso dei testi sacri), sia alle confraternite musulmane (accusate di distorcere il messaggio coranico, col loro ricorso a tecniche esoteriche e mistiche).
I percorsi di Mohamed Yusuf e del suo discepolo Abubakar Shekau in seno a Boko Haram si contraddistinguono per la valenza carismatica: ciascuno lotta per affermare il proprio dominio «spirituale e politico», scegliendo le strategie che via via considera vincenti per imporre una sorta di monopolio sulla setta. Questo atteggiamento assolutistico genera scossoni e favorisce scissioni che conducono, di norma, alla nascita di ulteriori micro-realtà, guidate da nuove figure in ascesa. Quando si parla di reti che unirebbero i vari gruppi di matrice islamica combattente, andrebbe detto che le varie cellule, spesso, non rappresentano che la volontà di un singolo capo circondato da qualche adepto, assoldato per motivi d’interesse o ventilando promesse mirabolanti in un linguaggio dai toni messianici.
Si suppone che i giovani siano in parte reclutati fra gli allievi (talibés) delle scuole coraniche, centri di antica e nobile origine, nati per l’insegnamento delle norme di base della religione, ma oggi talvolta divenuti luoghi di sfruttamento dei minori, che le famiglie affidano ai marabutti. Allontanati da casa per anni, costretti, a mendicare o rubacchiare per raggranellare quanto il marabutto impone loro come corvée (sotto la minaccia di pesanti pene corporali), abituati ad obbedire e a comportarsi con umiltà, educati alla recitazione del Corano in maniera acritica, i talibés costituiscono una preda malleabile per le sette radicali, che prospettano loro un ambito in cui, con le armi in mano, si assicureranno non solo potere e rispetto sociale, ma persino il paradiso, se disposti al sacrificio supremo di martiri della fede.
L’emergere di cellule combattenti e organizzazioni radicali, in Africa, è un fenomeno che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni, differenziandosi col tempo. Come spiegano Ruth Marshall-Fratani e Didier Péchard (Politique africaine n. 87), è chiaro che, per comprendere lo sviluppo del fattore religioso, non basta evocare la crisi socio-economica, gli effetti nefasti della globalizzazione o gli smacchi delle politiche nazionali.
La relazione fra l’ambito materiale e quello spirituale è complessa e riguarda la costruzione d’immaginari inediti, capaci di offrire un’identità nuova agli accoliti. In effetti, imponendo condotte e stili di vita specifici agli individui assoldati, i movimenti ne stravolgono – sotto ogni aspetto – il quotidiano, forgiandone il destino in maniera totalizzante.
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