by redazione | 22 Maggio 2014 9:08
Contro le aspettative di molti, anche la terza offerta della Pfizer è andata a vuoto, nonostante il piatto fosse salito a 118 miliardi di dollari: il consiglio di amministrazione della società farmaceutica anglo-svedese AstraZeneca, sesta al mondo per dimensioni, ha rifiutato la proposta di acquisizione del colosso americano. Per sei mesi, Pfizer non potrà presentare nuove offerte, ma tutti, compresi gli azionisti di AstraZeneca, ritengono che tornerà alla carica.
Il tentativo, che da mesi agita le pagine economiche dei media inglesi, aveva generato un notevole dibattito nell’opinione pubblica e condotto partiti e gruppi di pressione a prendere posizione. Laburisti e conservatori avevano tenuto posizioni opposte: per la protezione degli interessi inglesi i primi, più favorevoli a lasciar corso al mercato i secondi. Sullo sfondo, la campagna per le europee con il partito nazionalista Ukip lanciatissimo dai sondaggi.
Ma per una volta si erano mossi persino gli scienziati. Quattro società scientifiche inglesi (la Royal Society of Chemistry, la Society of Biology, la Biochemical Society e la British Pharmacological Society) in rappresentanza di circa centomila ricercatori, hanno pubblicato un appello per manifestare l’opposizione della comunità scientifica all’acquisizione. Non è una presa di posizione scontata: per capirci, è come se il nostrano ordine degli ingegneri si fosse espresso sull’operazione Fiat-Chrysler.
Il timore è che la Pfizer non sia interessata tanto alle competenze dei 6700 dipendenti inglesi di AstraZeneca, quanto al vantaggio fiscale di portare la sede legale a Londra, dove l’aliquota è nettamente inferiore rispetto agli Usa (21% contro 27%). La diffidenza non è infondata: la Pfizer disponeva già di un centro di ricerca in Inghilterra (a Sandwich, per 2400 dipendenti) ma nel 2011 lo aveva ceduto, con una perdita di circa mille posti di lavoro.
Il costo sociale delle fusioni tra grandi case farmaceutiche è tornato all’attenzione anche per la girandola di accordi e fusioni che hanno animato il settore nell’ultimo mese. La tedesca Bayer ha acquisito il settore dei farmaci da banco della statunitense Merck per 14 miliardi di dollari. La divisione vaccini della Novartis è passata alla GlaxoSmithKline, in cambio del portafoglio di farmaci oncologici. La Valeant, una delle società emergenti attraverso una spregiudicata strategia di acquisizioni e licenziamenti, ha offerto ben 46 miliardi per l’acquisizione della Allergan: è quella che produce il Botox, diffusissimo nella chirurgia estetica di massa, e per ora ha rifiutato la proposta proprio per i tagli previsti dalla Valeant, giudicati eccessivi.
Una fusione tra case farmaceutiche non è necessariamente una buona notizia, se non per gli azionisti. Come si è visto, non lo è dal punto di vista dei lavoratori. E non dovrebbe rallegrare nemmeno i pazienti. Un’analisi firmata proprio dall’ex-presidente della Pfizer Global Research and Development John LaMattina sulla rivista Nature Drug Discovery nel 2011 aveva dimostrato che con le fusioni degli ultimi anni si è ridotta la capacità innovativa complessiva e rallentato lo sviluppo dei farmaci. Secondo un altro analista indipendente, Bernard Munos, il numero di nuovi farmaci approvati ogni anno dalla Food and Drug Administration statunitense è legato direttamente al numero delle società farmaceutiche attive ed è calato da 31 a 24 (-20%) nei due decenni a cavallo del millennio.
Infine, la diminuzione della concorrenza genera prevedibili rialzi nei prezzi delle medicine. Le società Novartis e Roche, colpevoli di essersi accordate per favorire le vendite di un farmaco costosissimo (Lucentis) nonostante la disponibilità di un equivalente decine di volte più economico, l’Avastin, sono appena state multate per 180 milioni di euro dall’antitrust italiana.
L’opposizione diffusa incontrata dalla Pfizer nella mossa su AstraZeneca è dovuta anche al bassissimo indice di popolarità di Big Pharma, sotto i riflettori più per gli scandali che per i risultati scientifici. Dall’inizio dell’anno si moltiplicano le accuse a carico soprattutto della GlaxoSmithKline. I dirigenti della società sono indagati in Polonia, Libano e Iraq e Cina (qui insieme a quelli di AstraZeneca) per la corruzione di medici e funzionari al fine di aumentare i profitti dei propri farmaci. I mercati emergenti sono i più appetitosi, ma si tratta di pratiche note anche alle nostre latitudini: «Il venditore di medicine», film ispirato a simili inchieste, non si iscrive certo nel filone della fantascienza e il suo successo ne dimostra piuttosto l’attualità.
Le inchieste interne della Gsk hanno provocato 375 licenziamenti nel solo 2013 e nello stesso periodo anche alla Novartis ben 357 dipendenti hanno perso il lavoro dopo la scoperta di comportamenti poco etici nel settore commerciale. GlaxoSmithKline, non a caso, si difende sostenendo che le violazioni accertate che la riguardano (161 nel 2013) sono numerose quanto quelle delle società concorrenti. Ma se questo dato difficilmente scagionerà l’azienda inglese, sicuramente pesa come una condanna per l’intero settore.
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