A Srebrenica rinasce la terra del genocidio

A Srebrenica rinasce la terra del genocidio

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SREBRENICA HAKIJA si piega quasi a carezzare la terra con la mano. E’ un vecchio inverosimilmente magro, la faccia è quella di un contadino, ma molto più consumata, sembra il guscio dietro il quale si è ritirata la tartaruga. Lui è stato il primo a tornare a Osmace. La casa non c’era più, distrutta dalle cannonate come quasi tutte le case dei villaggi intorno a Srebrenica. In piedi era rimasta solo una capanna di legno e lì ha vissuto per un anno e mezzo, cercando nel frattempo di ricostruire la casa. La terra, ci fa vedere, è argillosa, e in quindici anni in cui nessuno ha abitato qui si è creato uno strato spesso più di trenta centimetri, duro come il cemento. Osmace è un villaggio della Bosnia orientale sulle alture di Srebrenica, a quasi mille metri, su un altopiano stretto tra i canali profondi di un’ansa della Drina, il fiume cruciale della storia balcanica, dove per secoli si sono scontrati ottomani e asburgici, cattolici e ortodossi, serbi e musulmani.
A pochi chilometri da qui c’è Brezani, un villaggio serbo. Si erano sempre aiutate, le famiglie dei due villaggi: prestandosi le macchine agricole, inseminando i capi di bestiame di un villaggio con quelli dell’altro. Ma nel 1992 i maschi di Brezani scomparvero per qualche giorno dal villaggio — l’esercito serbo li aveva portati in Serbia per addestrarli. Poi entrò in Bosnia Arkan con i suoi miliziani. La fine è nota: a Srebrenica, sotto il comando del generale Ratko Mladic ci fu nel luglio del 1995 il più efferato genocidio della storia europea dopo la seconda guerra mondiale. Srebrenica era una città termale famosa in tutta la Jugoslavia e aveva allora 40.000 abitanti, oggi ne ha 5000. Le strade sono vuote, le case nuove, e in mezzo alla via principale c’è una grande chiesa ortodossa che il pope ha immediatamente costruito su un terreno che apparteneva a una famiglia musulmana che non è riuscita più a riaverlo.
«Arare la terra e seminarla non è stato facile» dice Hakija. Il terreno si è riempito di sterpi, di felci che sono più resistenti della gramigna, e appena semini arrivano i cinghiali, e anche i lupi che attaccano il gregge. Però ce l’hanno fatta. Il primo raccolto, l’anno scorso. è stato buono. Ora da un giorno all’altro si dovrebbe seminare, ma oggi c’è un nevischio gelido, anche se siamo già in maggio, e bisogna aspettare che il tempo migliori. Nei due villaggi, in cui nessuno aveva abitato dal 1993 al 2002, quando Hakija è tornato, vivono oggi centinaio di persone. “Prima” Osmace aveva 942 abitanti e Brezani 373.
Hakija è lo zio di Muhamed Avdic, che ci ha portato qui e che insieme a un gruppo di giovani in cui ci sono musulmani e serbi è uno dei protagonisti di un progetto di ripresa di convivenza interetnica che “semina il ritorno”: coltivando e vendendo il grano saraceno, che è il più resistente alla felce e quello che cresce meglio su queste alture. Nel 2010 una organizzazione internazionale scaricò qui alcuni Tir di semi di grano, di cui all’inizio non sapevano bene che fare, racconta. Ma Muhamed e Velibor Rankic riuscirono a trovare un po’ di soldi (1500 euro mandati dalla Fondazione Langer e altre ong associate nel progetto Adopt Srebrenica). Una ditta di Sarajevo acquista il prodotto. Riceveranno questa settimana a Treviso il premio internazionale “Carlo Scarpa per il giardino” ideato dalla Fondazione Benetton che insieme a Adopt Srebrenica segue passo passo “Seminare il ritorno”.
Omer, 39 anni, è tornato con la moglie, la madre e tre bambini. E’ uno dei sopravvissuti a quella terribile marcia che attraverso i boschi, sotto le cannonate e gli agguati degli uomini di Mladic riuscirono, in sette giorni di cammino, senza cibo e senz’acqua, a raggiungere Tuzla in territorio libero dai serbi. Lui era tra i più giovani e fu messo nelle prime file dei 5000 uomini che tentarono la fuga. Ogni anno, in commemorazione di quella marcia, organizzazioni umanitarie ripetono il cammino. Lui non è mai riuscito ad andarci, dice, troppo insopportabili sono i ricordi. Più volte, mentre racconta, la moglie gli sussurra piano: fai attenzione che ci sono i bambini. E’ la prima volta che racconta la sua storia. Nella marcia morirono il padre, i due fratelli, e la moglie del fratello maggiore che era incinta di sei mesi. «Cinque» fa con le dita della mano la madre, una signora dolce, ancora con un viso giovane, che siede rannicchiata sul divano. «Ne ho perduti cinque». La figlia di nove anni, ascolta con gli occhi sgranati, immobile. Ci si saluta sotto il nevischio che continua a cadere. Omer ci accompagna fuori e scruta il cielo. «Domani sarà bello» sorride.


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