by redazione | 19 Aprile 2014 9:45
MOSCA — Russia, Stati Uniti ed Unione Europea hanno sottoscritto l’intesa di Ginevra ma sul campo sembra proprio che gli ucraini non la vogliano applicare. Qualche piccolissimo passo avanti si è registrato ieri con il governo di Kiev che ha promesso riforme costituzionali per venire incontro alle richieste delle popolazioni russofone dell’Est, compresi il riconoscimento della lingua russa e un decentramento dei poteri. Ma le barricate rimangono in piedi, gli edifici pubblici non vengono mollati dai rivoltosi che li hanno occupati. Tanto nella parte orientale del Paese, dove almeno dieci città sono praticamente controllate dagli indipendentisti, quanto a Kiev, dove i militanti della Maidan non smantellano gli sbarramenti, usano edifici pubblici e girano armati (ma dicono di essere autorizzati).
Nessuno smobilita e tutti aspettano che siano gli altri a fare il primo passo. Se mai questo basterà, visto che in alcuni casi, come a Donetsk, affermano che non rinunceranno alla repubblica indipendente fino a quando il governo di Kiev rimarrà al suo posto.
Così Washington e Mosca, che hanno favorito l’intesa firmata venerdì, adesso si scambiano accuse roventi, con nuove minacce di sanzioni da parte occidentale. Il segretario di Stato John Kerry è convinto che la parte dell’intesa sul disarmo delle milizie riguardi gli uomini appoggiati da Mosca che hanno messo le mani su arsenali dell’esercito e della polizia e che, a suo dire, sono appoggiati da truppe speciali russe senza segni di identificazione. Sergej Lavrov afferma invece che il disarmo deve naturalmente coinvolgere anche quelli di Kiev, i rivoluzionari della Maidan (la piazza dell’Indipendenza) o i «fascisti» come li chiamano tutti a Mosca.
Quelli di Donetsk arrivano quasi a sfidare la Russia, dicendo: «Lavrov non ha mica firmato per noi». Poi, chiamando Putin con il diminutivo usato dai familiari aggiungono, quasi sottovoce: «Sembra che Vova non ci voglia bene come pensavamo».
Ma gli Stati Uniti e anche diversi Paesi europei sono convinti che sia il Cremlino a dover spingere i miliziani a ritirarsi. E tornano a parlare di sanzioni se nulla di nuovo accadrà entro il fine settimana. Questa volta potrebbero essere misure finanziarie assai pesanti che colpirebbero non solo la cerchia dei più vicini a Putin, ma anche aziende e gruppi che fanno capo a vari oligarchi e che agiscono internazionalmente. In molti casi si tratta di imprese che hanno interessi negli Stati Uniti o che potrebbero essere colpite indirettamente, come avviene nel caso di Cuba. A società terze si potrebbe impedire di agire in collaborazione con queste aziende o addirittura di operare sul territorio russo agitando lo spettro di una esclusione dal mercato americano: una specie di «o con loro o con noi».
Mosca ha subito reagito alle voci arrivate dagli Stati Uniti affermando che queste minacce all’indomani di Ginevra «sono del tutto inaccettabili». E Dmitrij Peskov, il portavoce di Putin, ha aggiunto: «Non possono trattarci ogni giorno come scolaretti da mettere dietro la lavagna». Intanto, per «stabilizzare» la situazione, a Mosca sono state varate nuove misure restrittive contro chi critica il potere, soprattutto su internet. E in Estremo Oriente si è deciso di rafforzare le difese militari sulle isole Curili che il Giappone chiama Territori del Nord e rivuole indietro dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Fabrizio Dragosei
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