Se lo Stato uccide siamo tutti Socrate

by redazione | 3 Aprile 2014 9:20

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Che dire a qualcuno che venisse a dirvi all’alba: «Sapete, la pena di morte è il proprio dell’uomo?». ( Lungo silenzio) Io sarei subito tentato di rispondergli — troppo velocemente: sì, lei ha ragione. Almeno che non sia il proprio di Dio — o che non sia la stessa cosa. Poi, resistendo alla tentazione in virtù di un’altra tentazione — o in virtù di una contro tentazione, sarei allora tentato, riflettendoci, di non rispondere troppo velocemente e di farlo attendere — giorni e notti. Fino all’alba. […] E supponendo che la decisione di cui ci apprestiamo a parlare, la pena di morte, non sia l’archetipo stesso della decisione. Supponendo dunque che chiunque possa mai prendere una decisione che sia la sua, per sé, la sua propria. A questo riguardo ho manifestato spesso i miei dubbi. La pena di morte come decisione sovrana di un potere forse ci ricorda innanzitutto che una decisione sovrana è sempre dell’altro. Venuta dall’altro. […] Con la crudeltà che conoscete, e una crudeltà, sempre la stessa, della quale sapete anche che può andare dalla più grande brutalità dell’abbattimento, alle raffinatezze più perverse, dal supplizio più sanguinario o bruciante, al supplizio più denegato, più mascherato, più invisibile, più sottilmente macchinalizzato, dal momento che l’invisibilità o la denegazione non sono altro mai, e in alcun caso, che un pezzo di marchingegno teatrale, spettacolare, perfino voyeuristico. Per definizione, per essenza, per vocazione, non ci sarà mai stata invisibilità per una messa a morte legale, per una pena di morte applicata, per principio, per questo verdetto non c’è mai stata una esecuzione segreta o invisibile. Sono richiesti lo spettacolo e lo spettatore. La città, la polis, la politica tutta intera, la concittadinanza — di persona o mediata attraverso la sua rappresentazione — deve assistere e attestare, deve testimoniare pubblicamente che è stata data o inflitta la morte, deve veder morire il condannato. Lo Stato deve e vuole veder morire il condannato. […] Ogni volta uno Stato, associato a un potere clericale o religioso, in forme da studiare, avrà pronunciato verdetti e giustiziato grandi condannati a morte che furono dunque inanzitutto Socrate. Socrate, voi lo sapete ma ci ritorneremo, a cui fu imputato di aver corrotto i giovani non credendo agli dei della città e sostituendo a essi nuovi dei, come se avesse avuto il progetto di fondare un’altra religione e di pensare un uomo nuovo. Rileggete l’ Apologia di Socratee il Critone, vi troverete che un’accusa essenzialmente religiosa è presa in carico da un potere di Stato, un potere della polis, una politica, una istanza giuridico-politica, ciò che si potrebbe chiamare, con un terribile equivoco, un potere sovrano come potere esecutivo. l’ Apologia lo dice espressamente (24bc): la kategoria, l’accusa lanciata contro Socrate, è di aver avuto il torto, di essere stato colpevole, di aver commesso l’ingiustizia ( adikein) di corrompere i giovani e di (o per) aver smesso di onorare ( nomizein) gli dei ( theous) della città o gli dei onorati dalla città — e soprattutto di averli sostituiti non semplicemente con nuovi dei, come spesso dicono le traduzioni, macondeinuovidemoni(etera de daimonia kaina); e daimonia, sono senza dubbio degli dei, delle divinità, ma anche a volte dei fantasmi [ revenants], come in Omero, degli dei inferiori o dei fantasmi [ revenants], le anime dei morti; e il testo distingue bene gli dei e i demoni: Socrate non ha onorato gli dei ( theous) della città, e ha introdotto dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina).
L’accusa dunque, nel contenuto, è religiosa, propriamente teologica, addirittura esegetica. Socrate è accusato di eresia o di blasfemia, di sacrilegio o di eterodossia: si sbaglia sugli dei, si inganna o inganna gli altri, soprattutto i giovani, riguardo agli dei; ha confuso gli dei o ha generato confusione e disprezzo sugli dei della città. Ma questa accusa, questo capo di accusa, questa kategoria essenzialmente religiosa, è presa in carico, come sempre, e noi ci interessiamo regolarmente a questa ricorrente articolazione, sempre ricorrente, da un potere di Stato, in quanto sovrano, un potere di Stato la cui sovranità è essa stessa essenzialmente fantasmatico teologica e, come ogni sovranità, si marca nel diritto di vita e di morte sul cittadino, nel potere di decidere, di fare la legge, di giudicare e di eseguire/giustiziare l’ordine operando l’esecuzione del condannato. Anche negli stati-nazione che hanno abolito la pena di morte, abolizione della pena di morte che non equivale affatto all’abolizione del diritto di uccidere, ad esempio in guerra, ebbene, i pochi stati della modernità democratica che hanno abolito la pena di morte, conservano un diritto sovrano sulla vita dei cittadini che possono mandare in guerra per uccidere o per farsi uccidere in uno spazio radicalmente estraneo allo spazio della legalità interna del diritto civile in cui la pena di morte può essere mantenuta o abolita. […] È sempre legale uccidere un nemico straniero in situazione di guerra dichiarata, anche per un paese che ha abolito la pena di morte (e a questo proposito dovremo domandarci cosa definisce un nemico, uno straniero, uno stato di guerra — civile o meno; è sempre stato difficile determinarne i criteri e lo diventa sempre di più). D’altra parte, in secondo luogo, fino a certi fenomeni recenti e ristretti di abolizione legale della pena di morte in senso stretto in un numero ancora limitato di paesi, cioè negli stati-nazione di cultura abramitica, gli stati-nazione in cui una religione abramitica (ebraica, cristiana o islamica) era dominante, sia che fosse religione di Stato, religione ufficiale e costituzionale, sia che fosse semplicemente religione dominante nella società civile, ebbene, questi stati-nazione, fino a certi fenomeni recenti e limitati di abolizionismo, non hanno trovato alcuna contraddizione tra la pena di morte e il sesto comandamento «Tu non ucciderai».
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IL LIBRO
La pena di morte (Jaca Book pagg. 348 euro 30)

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