by redazione | 9 Aprile 2014 9:00
ROMA — Il capo dello Stato ha autorizzato il governo a trasmettere a Palazzo Madama, «senza modifiche», il disegno di legge che riforma il Senato, ridimensionandolo ad assemblea dei territori, e riscrive il Titolo V della Costituzione, togliendo molto alla potestà legislativa delle Regioni a favore di quella dello Stato.
L’atto è quasi dovuto da parte del Quirinale. Ma la firma apposta in ritardo di oltre una settimana ha creato un giallo sui contenuti che poi è stato chiarito da una nota dell’ufficio stampa del Quirinale: «Il disegno di legge costituzionale è stato firmato stamane (ieri,ndr ) dal capo dello Stato non appena pervenuta la relazione illustrativa. La trasmissione al Parlamento avviene a cura della presidenza del Consiglio. È pertanto destituita di fondamento la notizia secondo cui sarebbero state apportate correzioni dalla presidenza della Repubblica al testo trasmesso dal governo dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri». Dunque il Quirinale non ha perso tempo e non ha utilizzato la matita blu, mentre a Palazzo Chigi ci sono voluti otto giorni per completare una relazione illustrativa (inviata al Colle solo lunedì sera) che comunque appare lunga e complessa. Sta di fatto che l’ufficio di presidenza della I commissione del Senato convocato da Anna Finocchiaro potrà riunirsi solo oggi alle 14.30 per calendarizzare il ddl costituzionale del governo e un’altra decina di testi di iniziativa parlamentare.
È qui che nascono i problemi, molti interni al Pd, per la proposta del governo Renzi. Per questo due renziani di prima fila, Nicola Latorre e Andrea Marcucci, hanno chiesto un passo indietro a Vannino Chiti e agli altri 21 senatori democratici che hanno firmato un testo alternativo sulla riforma del Senato: «Li invitiamo ufficialmente a fare emendamenti al testo del governo», ha detto Marcucci. Ma la richiesta non è stata accolta (per ora) dai 22 senatori «fuori linea» che contano anche sulla sponda dei grillini, ora disponibili, seppure ci vorrà il responso della Rete, ad aperture sul ddl Chiti: «Il nostro testo resta sul tavolo», taglia corto Corradino Mineo (Pd). Mentre Felice Casson (Pd) ricorda: «Tutti i ddl di iniziativa parlamentare viaggiano in parallelo con quello del governo e poi si decide come emendare il testo base. Perché dunque ritirare un testo che raccoglie consensi anche tra i grillini, dentro FI e nel Ncd?». Chiti (assente all’assemblea del gruppo) è meno spigoloso: «La mia intenzione non è quella di creare ostacoli né quella di farci strumentalizzare per battaglie contro il governo».
Tutto questo, però, cozza contro il calendario di Renzi che aspira a chiudere la prima lettura al Senato entro le Europee del 25 maggio. Il premier dunque si prepara a sparare le sue cartucce: «Sono convinto che si va avanti. Quanto al mio partito, al di là di qualche senatore alla ricerca di visibilità, ricordo che si è discusso per anni e votato con le primarie le varie proposte, confido nella maggioranza dei senatori. Il testo si può migliorare ma deve rimanere l’idea di uno Stato più leggero».
Il punto è la composizione del Senato. Renzi lo vuole di 148 membri non eletti a suffragio universale mentre Chiti ne prevede 106 scelti dal popolo. La differenza è quella che intercorre tra un organo non politico e uno politico: «Discuto ma indietro non si torna, le riforme sono la precondizione per la ripresa economica», avverte il premier. Ma quando è sera, esponenti del governo si fanno vedere a Palazzo Madama per sondare quanto c’è di vero nella possibile saldatura sul Senato elettivo tra i 22 «fuori linea», il M5S e un’aliquota di FI e Ncd. Così Renzi attacca i grillini che strizzano l’occhio alla minoranza del Pd: «Mi sorprendono, avevo capito che erano nati per altro, non per difendere i senatori». Mentre a Paolo Romani (FI) che minaccia «di votare con Chiti e il M5S» replica che il «patto con Berlusconi è un altro».
Dino Martirano
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