Renzi. Il rozzo Stil novo

by redazione | 2 Aprile 2014 10:23

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La crisi ita­liana sta pro­du­cendo uno dei feno­meni poli­tici più inquie­tanti, oggi, in Europa: un popu­li­smo di tipo nuovo, viru­lento e nello stesso tempo isti­tu­zio­nale. Tanto più pre­oc­cu­pante per­ché emer­gente non al mar­gine ma nel cen­tro stesso del sistema di potere. Non dal basso (come avviene per i movi­menti così eti­chet­tati) ma “dall’alto” (dal cuore del potere ese­cu­tivo, dal Governo stesso), assu­mendo come vet­tore (altro para­dosso) l’unico par­tito che con­ti­nua a defi­nirsi tale.

E che fino a ieri ten­deva a pre­sen­tarsi, a torto o a ragione, come la prin­ci­pale bar­riera con­tro le derive auto­ri­ta­rie e popu­li­sti­che. Mi rife­ri­sco al rozzo Stil novo intro­dotto da Mat­teo Renzi, con la con­vin­zione che non si tratti, solo, di una que­stione di stile. O di comu­ni­ca­zione, come fret­to­lo­sa­mente lo si clas­si­fica. Ma che tutto ciò che si con­suma sotto i nostri occhi alluda a una muta­zione gene­tica del nostro assetto isti­tu­zio­nale e dell’immaginario poli­tico che gli fa da con­torno, in senso, appunto, populista.

Se infatti per popu­li­smo si intende l’evocazione (in ampia misura reto­rica) di un “popolo” al di fuori delle sue isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive e per molti versi con­trap­po­sto alla pro­pria stessa rap­pre­sen­tanza (al corpo dei pro­pri rap­pre­sen­tanti ricon­fi­gu­rati in “casta”), allora non c’è dub­bio che Renzi ne inter­preta una variante par­ti­co­lar­mente viru­lenta. E’ tipico di Renzi, da quando ha var­cato la porta di palazzo Chigi, lavo­rare per aggi­rare e ten­den­zial­mente liqui­dare ogni media­zione isti­tu­zio­nale (a comin­ciare dal Par­la­mento) per isti­tuire un rap­porto diretto capo-massa.

Le mani­che di cami­cia osten­tate nei palazzi del potere (come fosse il lea­der di un movi­mento di desca­mi­sa­dos anzi­ché pro­ve­nire da una tra­di­zione demo­cri­stiana di lungo corso e da uno dei più for­ma­li­stici pezzi dell’establish­ment quale è stato in que­sti anni il Pd). Il les­sico da ricrea­zione sco­la­stica, anche dove si parla di cose serie. Il discorso al Senato — lo ricor­date? -, volu­ta­mente sgan­ghe­rato, infor­mal­mente invol­ga­rito, con quello sguardo per­duto lon­tano, nell’occhio delle tele­ca­mere per sem­brare pun­tato sull’intimità delle fami­glie, comun­que oltre i volti pre­oc­cu­pati dei sena­tori seduti davanti… Tutto allude a una volontà, espli­cita, di far tabula rasa della “società di mezzo”, delle mol­te­plici strut­ture di media­zione del rap­porto tra popolo e Stato, che siano le forme con­so­li­date della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (il Par­la­mento in primo luogo), o quelle spe­ri­men­tate della rap­pre­sen­tanza sociale e dei gruppi di inte­resse (sin­da­cati, Con­fin­du­stria, liqui­dati tutti come con­cer­ta­tivi). E di ver­ti­ca­liz­zare quel rap­porto sull’asse per­so­na­liz­zato dell’uomo solo al comando. Del “mi gioco tutto io”. Anche “quello che è vostro”.

Ora non c’è dub­bio che in que­sta spe­ri­co­lata ope­ra­zione Renzi può con­tare su un dato sacro­santo di realtà, costi­tuito appunto dalla macro­sco­pica crisi della Rap­pre­sen­tanza. Dei suoi sog­getti e dei suoi isti­tuti, ben visi­bile nei fatti di cro­naca: nell’impotenza mostrata dal Par­la­mento a più riprese, dalla crisi che portò al governo Monti alle ver­go­gnose scene che accom­pa­gna­rono l’elezione del Pre­si­dente della Repub­blica. Nel discre­dito dei par­la­men­tari (quasi tutti), dei con­si­glieri regio­nali, degli ammi­ni­stra­tori pro­vin­ciali e comu­nali, giù giù a cascata lungo tutta la scala degli organi elet­tivi, nes­suno salvo. Per­sino nello sta­tus dei pro­ta­go­ni­sti attuali: nes­suno dei tre lea­der che si spar­ti­scono la scena, da Grillo, a Ber­lu­sconi a Renzi stesso è un “par­la­men­tare”. Ma a dif­fe­renza di chi di quella crisi non ha voluto nep­pur pren­dere atto (la pre­ce­dente mag­gio­ranza Pd, che infatti si è andata a schian­tare senza nep­pure capire per­ché), e di quanti (pochi) su quella crisi si arro­vel­lano per cer­carne una uscita in avanti (noi della lista per Tsi­pras, per fare un nome), Renzi ha deciso di quo­tarla alla pro­pria borsa.

E’ il primo che ha scelto con­sa­pe­vol­mente di capi­ta­liz­zare sulla crisi degli ordi­na­menti rap­pre­sen­ta­tivi. Per valo­riz­zare il pro­prio per­so­nale ruolo nel qua­dro di un modello di gestione del potere espli­ci­ta­mente post-democratico. O, dicia­molo pure senza temere di appa­rire retrò, anti-democratico. Fon­dato su una forma estrema di deci­sio­ni­smo, non più nep­pure legit­ti­mata dai con­te­nuti, ma dal metodo. Deci­dere per deci­dere. Deci­dere in fretta. Anzi, fare in fretta anche senza deci­dere, per­ché comun­que, quello che con­terà al fine del con­senso, non sarà un fatto con­creto ma piut­to­sto il rac­conto di un fare (Crozza docet).

Per que­sto hanno ragione, ter­ri­bil­mente ragione, gli autori del docu­mento di Libertà e giu­sti­zia, lad­dove denun­ciano il reale rischio di un auto­ri­ta­ri­smo di tipo nuovo. Basato sullo scon­quasso dell’architettura isti­tu­zio­nale e sulla rot­ta­ma­zione dell’idea stessa di demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva, fatta con gio­va­ni­li­stica non­cu­ranza (con “stu­den­te­sca spen­sie­ra­tezza”, per usare un’espressione gobet­tiana), nel qua­dro di una par­tita in cui l’azzardo pre­vale sul cal­colo, la velo­cità sul pen­siero. E’ pos­si­bile, come temono (o spe­rano) in molti, che Mat­teo Renzi “vada a sbat­tere”. Che, come il cat­tivo gio­ca­tore di poker costretto a rilan­ciare con­ti­nua­mente la posta ad ogni mano per­duta, alla resa dei conti (all’emergere dell’ice­berg som­merso del fiscal com­pact e delle decine di miliardi da pagare) fac­cia default. Prima o poi. Ma, appunto, dalla vici­nanza di quel prima o dalla distanza di quel poi dipende l’ampiezza dei danni (irre­ver­si­bili) che è desti­nato a fare. Den­tro que­sta for­bice tem­po­rale, si gioca la pos­si­bi­lità di costruire un’alternativa poli­tica, di sini­stra, par­te­ci­pa­tiva, non arresa ai vin­coli euro­pei, come vuole l’Altra Europa con Tsipras, e al malaf­fare ita­liano. Anche solo una testa di ponte, per tenere quando si dovranno calare le ultime carte.

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