Reggio-Messina, la metropoli dello Stretto

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Tra la punta dello sti­vale e la Sici­lia c’è un tratto di mare, di poco più di tre chi­lo­me­tri che alcune volte diventa un lago salato, facile da attra­ver­sare con una pic­cola barca a remi, ma anche a nuoto come avviene ogni anno il 15 ago­sto e a Capo­danno per un antica tra­di­zione. Altre volte que­sto mare si agita, ha le con­vul­sioni, solo le grandi navi por­ta­con­tai­ner rie­scono a pas­sare men­tre le due rive si allon­ta­nano, l’Aspromonte scom­pare dalla vista dei mes­si­nesi e un’ombra scura sulla costa sici­liana impe­di­sce ai reg­gini di vedere Zan­kle, Mes­sene, Messina.

Reg­gio e Mes­sina, città sorelle e, a volte, acer­rime nemi­che, hanno vis­suto nel corso della sto­ria le stesse cata­strofi natu­rali (più di venti terremoti/maremoti cata­stro­fici di cui i più recenti sono stati il 1783 e il 1908) che ne hanno segnato la memo­ria e l’identità, ma hanno anche intrec­ciato e mesco­lato le popo­la­zioni delle due sponde, le cul­ture e i riti reli­giosi, la gastro­no­mia e il dia­letto. Reg­gio è la meno cala­brese delle città della Cala­bria così come Mes­sina è la meno sici­liana: sono città di fron­tiera, rispetto a Palermo e Catan­zaro, i capo­luo­ghi regio­nali. Appar­ten­gono allo Stretto, a que­sto pae­sag­gio unico al mondo, carico di miti anti­chi quanto la nostra civiltà, di feno­meni natu­rali straor­di­nari (come la fata Mor­gana), di uno sky­line armo­nioso e sug­ge­stivo che solo la fol­lia dello svi­lup­pi­smo delle grandi opere voleva detur­pare e distrug­gere con la costru­zione del farao­nico Ponte. Un’opera voluta anche dai sici­liani e cala­bresi che vivono lon­tano dallo Stretto e vedono que­sto tratto di mare come un osta­colo, una per­dita di tempo, per­ché non sanno godere di que­sto spet­ta­colo perenne che uni­sce le due città, come la vite che s’intreccia all’ulivo.

Rico­struite dopo il ter­ri­bile ter­re­moto del 1908, il più deva­stante al mondo per numero di morti (oltre 100.000) durante il secolo scorso, le due città hanno seguito tra­iet­to­rie diverse sul piano socio-economico. Durante il fasci­smo che rea­lizzò velo­ce­mente la rico­stru­zione, Mes­sina ebbe un ambi­zioso piano urba­ni­stico (piano Borzì) e cospi­cui finan­zia­menti da parte del governo fasci­sta per via degli stretti rap­porti del suo arci­ve­scovo con il duce. La città fu ridi­se­gnata con grandi viali, ampie piazze, e grandi edi­fici pub­blici in stile fasci­sta, non­ché palazzi e ville nobi­liari in stile liberty. Fino alla seconda guerra mon­diale il porto di Mes­sina aveva un ruolo impor­tante nell’esportazione di vino e agrumi sici­liani (in par­ti­co­lare i limoni, il 90% dell’export nazio­nale di que­sto agrume), del legname dell’Aspromonte, della seta pro­dotta a Villa San Gio­vanni e delle essenze di ber­ga­motto pro­dotte a Reg­gio. Aveva inol­tre delle fab­bri­che di essenze agru­ma­rie e tes­sili e altre indu­strie create da impren­di­tori stra­nieri e locali. Divisa tra due forti mas­so­ne­rie, una laica-mazziniana e l’altra cat­to­lica, la città espri­meva un livello cul­tu­rale molto più alto della media delle altre città del Mez­zo­giorno anche gra­zie alla pre­sti­giosa Uni­ver­sità nata nel XV secolo, una delle più anti­che del nostro Sud.

Di con­tro, Reg­gio era una pic­cola città-fortezza, dise­gnata intorno al castello ara­go­nese del XV secolo. Fu rico­struita sulla stessa strut­tura urba­ni­stica pre-terremoto, solo più in alto per­ché era stato il mare­moto a fare il mag­gior numero di vit­time. La sua ric­chezza non veniva dal mare, ma dall’entroterra e il potere era in mano a una deca­dente nobiltà e a una pic­cola bor­ghe­sia com­mer­ciale. Ma, aveva una grande fonte di ric­chezza e di lavoro: la lavo­ra­zione del ber­ga­motto, le cui essenze hanno costi­tuito la base dell’industria cosme­tica fino a quando, nel 1954, non è stato tro­vato un sosti­tuto chimico.

Dagli anni ’50 del secolo scorso le due città subi­rono un pro­gres­sivo pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione, di per­dita del rap­porto pro­dut­tivo con le pro­prie risorse, di cre­scente peso della pub­blica ammi­ni­stra­zione e della spesa assi­sten­ziale. Un feno­meno che è stato comune alla gran parte delle regioni meri­dio­nali, dove solo dal 1951 al 1971 l’industria mani­fat­tu­riera ha fatto regi­strare un saldo nega­tivo di 17.525 unità a fronte di un aumento di 144.130 unità che si regi­stra nel Centro-Nord . È un pro­cesso di dein­du­stria­liz­za­zione che col­pi­sce la Pmi meri­dio­nale e porta ad una dele­git­ti­ma­zione del mer­cato capi­ta­li­stico. Il ven­ten­nio dello svi­luppo eco­no­mico ita­liano è stato il ven­ten­nio della deser­ti­fi­ca­zione pro­dut­tiva nel Mez­zo­giorno, che non ha retto alla pro­gres­siva glo­ba­liz­za­zione dei mer­cati, e ha pro­dotto un vuoto socio-economico e poli­tico che altri sog­getti hanno riempito.

A Mes­sina, la crisi pro­dut­tiva e occu­pa­zio­nale è stata in parte sosti­tuita dalla spesa pub­blica e la cre­scita abnorme delle pub­bli­che isti­tu­zioni: Comune, Pro­vin­cia, Ospe­dale, Poli­cli­nico, Uni­ver­sità. Alla bor­ghe­sia pro­dut­tiva e libe­rale (a Mes­sina nel 1948 il Par­tito libe­rale prese il 14%, un record in Ita­lia) si è andata sosti­tuendo la bor­ghe­sia sta­tale, i buro­crati e i poli­tici che inter­cet­ta­vano i flussi cre­scenti di spesa pub­blica. La crisi pro­fonda della città ini­zia negli anni ’70 del secolo scorso e segue la para­bola della spesa pub­blica. Il suo declino è inar­re­sta­bile, ma lento, sor­dido, non suscita rea­zioni, tanto da con­fer­mare l’ingiuria per i mes­si­nesi di essere dei bud­daci, cioè pesci che stanno a bocca aperta, par­lano tanto, ma non com­bi­nano niente. La cor­ru­zione, l’incapacità, la man­canza di una cit­ta­di­nanza attiva, fanno sì che la città con­ti­nui a spe­gnersi len­ta­mente, con brevi ritorni di fiamma come accadde nel periodo 1994-‘98 durante la giunta Pro­vi­denti. Un’eccezione in oltre quarant’anni di decadenza.

Dall’altra parte dello Stretto il crollo nelle ven­dite delle essenze di ber­ga­motto e delle arance (per via della con­cor­renza spa­gnola), fonti pri­ma­rie di ric­chezza della città, venne solo in parte com­pen­sato dalla cre­scita della spesa pub­blica. Il crollo della nobiltà lati­fon­di­sta, della bor­ghe­sia com­mer­ciale, non trovò un sog­getto sociale capace di ege­mo­nia fin­ché non scop­piò la guerra per il Capo­luogo nel 1970. Durò quasi un anno e fu l’ultima rivolta popo­lare di massa del Mez­zo­giorno, su cui si inse­ri­rono inte­ressi esterni legati alla stra­te­gia della ten­sione, e si sal­da­rono i rap­porti tra Mas­so­ne­ria, ser­vizi segreti e ‘ndran­gheta. Ma, la gente che era scesa in piazza e che morì o fu ferita e arre­stata aveva, oltre l’orgoglio di appar­te­nenza, l’obiettivo di com­bat­tere per gli unici posti di lavoro cre­di­bili: quelli della pub­blica ammi­ni­stra­zione. Men­tre la sini­stra, Pci in testa, par­lava di fab­bri­che e indu­stria­liz­za­zione, la popo­la­zione cre­deva solo al Capo­luogo come fonte d’occupazione e di red­dito. Que­sta rivolta segnò una cesura sto­rica netta: la vio­lenza della repres­sione gover­na­tiva, l’azzeramento della classe poli­tica demo­cri­stiana, portò a un vuoto totale di potere e di lega­lità che durò molti anni. Crebbe allora l’abusivismo edi­li­zio, fino a quel momento mar­gi­nale, fino a dar vita nei decenni suc­ces­sivi, alla costru­zione del 90 per cento di case abu­sive. Intorno al cen­tro sto­rico la città è cre­sciuta come uno ster­mi­nato e informe agglo­me­rato di case man­gian­dosi la cam­pa­gna un tempo lus­su­reg­giante. Ma, soprat­tutto, emerse con forza il ruolo ege­mone della bor­ghe­sia mafiosa com­po­sta da pro­fes­sio­ni­sti, impren­di­tori, poli­tici e il brac­cio armato di quella orga­niz­za­zione che si chiama ‘ndran­gheta, diven­tata la più potente delle mafie. Senza Stato, né Mer­cato, Reg­gio divenne un labo­ra­to­rio per la via cri­mi­nale all’accumulazione capi­ta­li­stica che si è dif­fuso in tutto il mondo.

Nel nuovo secolo lo sce­na­rio socio-politico dell’area dello Stretto appa­ren­te­mente non cam­biò. Mes­sina con­ti­nuò nel suo declino e passò da un Com­mis­sa­ria­mento del Comune all’altro, per cor­ru­zione, dis­se­sto finan­zia­rio o sem­plice caduta della giunta comu­nale. Reg­gio, che aveva vis­suto un pic­colo momento di rina­scita (la cosid­detta «Pri­ma­vera reg­gina» del com­pianto sin­daco Italo Fal­co­matà), ricadde nello scon­forto e finì nelle mani di un abile poli­tico, già lea­der del Fronte della Gio­ventù, che si inventò il modello Reg­gio: spesa pub­blica a go-go per spet­ta­coli e diver­ti­menti, clien­te­li­smo sfre­nato e bilan­cio comu­nale truc­cato e fuori controllo.

Negli ultimi anni la sto­ria delle due città ha subito un’accelerazione e una svolta impre­ve­di­bile. Il bello della vita è que­sto: quando non ti aspetti più niente, quando sem­bra che non ci siano più spe­ranze, quando sei rat­tri­stato da una gior­nata carica di nuvole, piog­gia e vento, improv­vi­sa­mente un rag­gio di luce appare sullo Stretto e cam­bia la tua visione, la tua per­ce­zione del futuro.

A Reg­gio il modello Sco­pel­liti è finito nelle mani della magi­stra­tura, men­tre la città lan­gue sotto il peso di un lungo Com­mis­sa­ria­mento inca­pace di risol­vere il dis­se­sto finan­zia­rio dovuto alle pas­sate ammi­ni­stra­zioni. È una città in fuga, dove par­tono non solo i lau­reati ma tutti quelli che pos­sono, e la stessa bor­ghe­sia mafiosa ha smesso di inve­stire da anni, spo­stando i capi­tali verso il Nord Ita­lia e le aree più ric­che del mondo. Quasi ogni notte una bomba sve­glia gli abi­tanti (l’ultima pro­prio al lato della pre­fet­tura) e sono ripresi gli omi­cidi mafiosi, dopo una lunga pax seguita al «Trat­tato» del 1992 in cui i capi­clan posero fine alla guerra di ‘ndran­gheta che costò set­te­cento omi­cidi in sette anni.

A Mes­sina, nes­suno se lo aspet­tava o ci avrebbe scom­messo un euro, nelle ele­zioni comu­nali del giu­gno scorso ha vinto la lista civica di Renato Acco­rinti, mili­tante paci­fi­sta, eco­lo­gi­sta e lea­der del movi­mento No Ponte. Una figura di sin­daco che ha stu­pito l’Italia interna e non solo, e che è il frutto di una improv­visa rivolta della città al malaf­fare e alla bor­ghe­sia paras­si­ta­ria che l’ha gover­nata per decenni. La giunta Acco­rinti, com­po­sta da tec­nici social­mente impe­gnati, ha un pro­gramma ambi­zioso di riscatto della città e in pochi mesi ha già segnato un visi­bile cam­bia­mento (Renato Acco­rinti è il sin­daco più amato dagli ita­liani secondo l’ultimo son­dag­gio Ipsos). Ma, il fatto isti­tu­zio­nal­mente più rile­vante è la volontà di que­sta giunta di costruire la città metro­po­li­tana dello Stretto, unendo Reg­gio e Mes­sina e i Comuni limi­trofi. Diver­rebbe la terza città del Mez­zo­giorno per popo­la­zione e, soprat­tutto, un labo­ra­to­rio di soste­ni­bi­lità sociale e ambien­tale, a par­tire dai tra­sporti neces­sari per dare la con­ti­nuità ter­ri­to­riale alle due sponde. La sfida della giunta Acco­rinti ha con­ta­giato la sponda reg­gina e l’idea di una città dello Stretto che venga fon­data sui valori dell’ambiente, dell’economia soli­dale e della pace, sta comin­ciando a navi­gare da una sponda all’altra. Se il tiranno Anas­sila era riu­scito a uni­fi­care le due città con la forza, oggi que­sta unione avviene sotto il segno di una demo­cra­zia che cre­sce dal basso.


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