Parasubordinati e «co.co.co.» Dopo trent’anni assegno di 670 euro
Pensioni Chi può fugge altrove: non all’estero, ma nella gestione previdenziale degli artigiani o dei commercianti che accantonano ogni anno tra il 22 e il 24% del proprio reddito. Chi resta spesso è un medico specializzando o un assegnista di ricerca. Oppure è un praticante avvocato e magari ignora che quegli anni di “tirocinio” in uno studio professionale non gli sono valsi assolutamente nulla in termini previdenziali. Zero. Nonostante qualcuno (fortunato) un compenso (equo?) l’ha persino ricevuto e in un sistema contributivo come il nostro avrebbe il diritto di poter accantonare qualcosa in vista dell’età della quiescenza. In fondo, però, è un privilegiato perché al termine del periodo di pratica i suoi versamenti (una volta acquisito lo status di professionista) confluiranno in una cassa previdenziale dove l’aliquota contributiva è più bassa (16-18%, impattando così meno sul reddito) e le tutele maggiori. Gli altri, e sono circa un milione secondo le stime dell’Inps, saranno futuri pensionati di serie B. Confluiscono in un contenitore chiamato Gestione Separata Inps (la cui aliquota contributiva salirà dall’attuale 27% al 33% entro il 2018), che ha un attivo di otto miliardi di euro tale da compensare (vuole il caso) il passivo della gestione dei dipendenti pubblici. Sono i circa 50 mila contratti di associazione in partecipazione (quelli chiamati anche a “partecipare” le perdite di un’attività), gli oltre 300 mila tra co.co.co, come i collaboratori di giornali e riviste, i co.co.pro, i consulenti. Oppure i volontari del Servizio civile (al Sud sono tanti, danno una mano alla collettività e intanto sbarcano il lunario come possono). Infine le migliaia di percettori di voucher chiamati nell’era dell’iperflessibilità a gestire picchi produttivi o stagionali. La società di consulenza finanziaria Progetica ha elaborato per il Corriere della Sera due profili di lavoratori atipici per capire quanto percepiranno una volta andati in pensione. Per loro la cosiddetta «busta arancione» (l’allora presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua disse apertamente di un rischio di «sommovimento sociale se dovessimo dare la simulazione della pensione») significherà percepire un assegno pari a meno della metà dell’ultimo stipendio e poco al di sopra del sussidio minimo. Un 30enne parasubordinato andrà infatti in pensione nel 2053 a 670 euro al mese (ultimo reddito percepito 1.370 euro) dopo oltre 40 anni di contributi e ammettendo l’ipotesi di qualche interruzione contrattuale. Va persino peggio a un co.co.co di 40 anni: stipendio di 1.240 euro al mese nel 2041 e 590 euro di pensione considerando una crescita del Pil nulla o poco superiore allo zero: la situazione degli ultimi 15 anni. A complicare il quadro quella che si potrebbe definire la «precarietà» del meccanismo di aggancio tra i versamenti contributivi e la posizione previdenziale del lavoratore. In altri termini basta una piccolissima differenza percentuale tra quanto dichiarato dal lavoratore e quanto effettivamente versato a mandare in tilt l’Inps che può non riconoscere l’anno ai fini pensionistici. Oltre il danno, la beffa. Come i controlli da parte dell’istituto di previdenza che considera «normali» eventuali buchi contributivi proprio a causa della precarietà dei contratti. Così l’onere della prova spetta al giovane co.co.co che ha solo 5 anni di tempo per dimostrare di aver versato i soldi all’Inps. A condizione che se ne accorga.
Fabio Savelli
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