by redazione | 16 Aprile 2014 10:16
Si chiama Juana Evangelista Martínez. Ha sei figli, dodici anni il maggiore, cinque il più piccolo. A volte piange perché non ha cibo per loro. Non ha terra da coltivare, e abita in una casa che le è stata prestata. Mormora: «Tutto quello che posso fare è lavare biancheria e guadagnare pochi spiccioli». Suo marito le manca. Si chiamava Arnaldo Ruiz Diaz. Fu ucciso dalla polizia il 15 giugno 2012, ad alcuni chilometri da Curuguaty, a nord-est della capitale Asunción. All’epoca, la tragedia fece molta impressione in Paraguay. E a ragione: fu il pretesto che serviva per rovesciare il presidente di centrosinistra Fernando Lugo.
Riepilogo dei fatti: in questo paese di 6,7 milioni di abitanti, circa 300mila famiglie di contadini poveri non hanno accesso alla terra. Nella località chiamata Marina Cue, una sessantina di rurali in lotta avevano occupato 1.089 ettari usurpati dal grosso proprietario terriero e uomo politico Blas N. Riquelme, ex presidente del Partito colorado. Anni prima, il 4 ottobre 2004, il decreto 3532 firmato dal presidente Nicanor Duarte aveva dichiarato quelle terre «di interesse sociale» trasferendole all’Istituto nazionale per lo sviluppo rurale e la terra (Indert), incaricato della riforma agraria. La cosa era nota a tutti, ma non impedì l’irruzione, il 15 giugno 2012, di 380 poliziotti dotati di armi pesanti, per far sloggiare gli occupanti dall’accampamento organizzato. In circostanze mai chiarite, parte un colpo di fucile. Panico generale. Alla fine si contano 17 morti: 11 contadini, 6 poliziotti.
«Nessuno dei nostri aveva mai avuto problemi con la giustizia, ci confidava qualche mese fa Martina Paredes, i due fratelli Fermín et Luis morti in quel giorno maledetto. Nessuno aveva armi da combattimento. Avevano fucili da caccia perché mancava il denaro per comprare un po’ di carne. Non è con questo genere di pistole ad aria compressa che si può bucare il giubbotto antiproiettile di un poliziotto».
Prima conseguenza: accusato di aver fomentato la violenza contro i grandi proprietari terrieri, il presidente Lugo, la cui politica disturba i potenti, viene destituito dopo un «giudizio politico» di 24 ore. Eppure sulla base dell’articolo 225 della Costituzione, egli avrebbe dovuto disporre di 5 giorni per organizzare la propria difesa. Una procedura come quella attuata si può chiamare in un solo modo: colpo di Stato.
Seconda conseguenza: pur dichiarando di non poter precisare «a chi appartenga la finca nota con il nome di Marina Cue e chi abbia sparato contro i poliziotti», il procuratore Jalil Rashid fa arrestare 12 contadini. Cinque vengono imprigionati; gli altri sette – fra i quali due donne incinte – dopo uno sciopero della fame di 60 giorni ottengono il «beneficio» degli arresti domiciliari.
Terza conseguenza: sei mesi dopo il massacro, il dirigente Vidal Vega viene assassinato da due sicarios a volto coperto. «Stava portando avanti un’inchiesta parallela, precisa chi gli stava vicino, ed era molto coraggioso. Conosceva molte persone, molti picchiatori che lavoravano per la Riquelme e spesso aveva detto che avrebbe testimoniato su quel che sapeva.» Secondo lui, erano stati degli «infiltrati» a provocare lo scontro a fuoco sparando al tempo stesso sui poliziotti e sui contadini. E secondo Hugo Richert, ex ministro dell’azione sociale nel governo Lugo, «la faccenda potrebbe essere stata architettata in modo da disporre di un pretesto perfetto per destituire il presidente. Malgrado la pressione dei cittadini, il procuratore fa indagini a senso unico: la tesi è che i contadini avrebbero teso un agguato ai poliziotti». Delle undici vittime fra i contadini, nessuno si cura. Però…
L’inchiesta giudiziaria è stata viziata da molte irregolarità. Un elicottero della polizia aveva sorvolato l’area durante gli eventi; ma la registrazione video realizzata dall’alto è misteriosamente scomparsa. Nessuna perizia né indagine balistica è stata realizzata per determinare chi abbia potuto uccidere i sei poliziotti. In compenso, dei bossoli di armi automatiche raccolti sul luogo della tragedia provano che le vittime appartenenti alle forze dell’ordine non potevano essere state provocate dalle armi obsolete dei contadini. Al tempo stesso, un fucile Mverick calibro 12 rubato a un ex militare giorni dopo i fatti, e dunque estraneo agli stessi, è stato aggiunto agli elementi a carico dei «senzaterra». Infine, l’8 ottobre 2013, la giudice Janine Rios ha autorizzato il procuratore Rashid a lasciar perdere sei dossier di prove incriminanti che egli aveva malauguratamente «dimenticato» di aggiungere agli elementi d’indagine.
Il 20 marzo scorso, il gruppo del Partito democratico progressista (Pdp) ha presentato al Senato una serie di fotografie di contadini morti e ammanettati, evidentemente vittime di esecuzioni sommarie. Potrebbe trattarsi di sette uomini fra i quali Avelino Espinola, Adolfo Castro, De los Santos Agüero, Ricardo Frutos e Andrés Riveros. Ma la giustizia si accanisce sulle famiglie contadine. Mariano Castro, un figlio morto e gli altri due in prigione, sopravvive a stento in una delle baracche dai tetti di lamiera affiancate da banani ai bordi di una pista piena di buche. Insieme a Marina Paredes e a un altro vicino, Domingo Noguera, tutti membri della Commissione delle famiglie e delle vittime del massacro di Curuguaty, Mariano ci spiegava pochi giorni fa: «Qui vivono da venti anni circa trecento famiglie.
Secondo l’Indert, questa terra ha un proprietario, Gustavo Ramón Vérez, che è ricercato dalla giustizia ed è sparito. Dunque abbiamo “recuperato” questo posto, ma non abbiamo titolo di proprietà e questo ci preoccupa. Può succedere di tutto. Ecco perché abbiamo cercato terra a Marina Cue, ad appena un chilometro da qui».
La formula «non è detto che debba andar peggio» non si applica al Paraguay. Mentre queste famiglie povere sopravvivono coltivando otto ettari in modo collettivo, il 5 febbraio il giudice di Curuguaty, José Benitez, ha ordinato l’arresto dei tre contadini succitati, per «invasione di proprietà privata». «È un tentativo di decapitare il gruppo per impaurire le persone» si è indignata Marina Paredes, dopo la comparizione.
Davanti alla collera provocata dalla sua decisione, il giudice ha fatto marcia indietro, ma di poco: assegnando una misura alternativa alla prigione, ha vietato agli indagati di uscire dal paese, di di avvicinarsi alle terre in questione, di cambiare domicilio senza autorizzazione, e ha loro imposto una cauzione di 60 milioni di guaraní (9.600 euro). Una somma colossale, per loro.
Rimane il fatto che dalle celle della prigione di Tacumbú cinque uomini – Adalberto Castro, Felipe Balmori, Rubén Villalba, Arnaldo Quintana e Néstor Castro — hanno continuato a proclamare la propria innocenza. Il 14 febbraio, davanti all’inerzia della giustizia e dei poteri pubblici, hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato per chiedere di essere liberati e di poter recuperare le terre di Marina Cue, e che finisca la persecuzione della lotta contadina. «Siamo in prigione, sostengono, senza che la Procura abbia presentato una sola prova seria della nostra colpevolezza».
Il potere fa orecchie da mercante. In uno stato sempre più precario, estremamente indeboliti, ormai incapaci di muoversi, i cnque contadini, ognuno dei quali ha perso fra i dieci e i quindici chili, sono stati alla fine trasportati all’ospedale militare di Asunción. L’8 aprile, dopo una veglia di preghiera nella cattedrale, un migliaio di persone ha partecipato a una marcia per chiedere la loro liberazione. In un primo tempo, senza risultato: il 9 aprile, al 54esimo giorno di sciopero della fame, il tribunale di Salto del Guairá, presieduto dal giudice Ramón Trinidad Zelaya, rifiutava gli arresti domiciliari chiesti dalla difesa, ritenendo che «nessun elemento di novità» legittimasse questa misura, visto che «i segni vitali dei detenuti erano normali», che i detenuti erano «lucidi» e ricevevano appropriate cure mediche.
In una lettera resa pubblica il primo aprile, i cinque avevano annunciato in anticipo la decisione di non porre fine alla loro protesta, sottolineando: «Se uno di noi muore, lo Stato paraguayano e la famiglia Riquelme saranno responsabili davanti al popolo e alla storia». Insieme alla pressione a livello nazionale e internazionale, questa prospettiva ha finalmente indotto a più miti consigli il governo di Horacio Cartes. Il 12 aprile, dopo aver chiesto a un gruppo di medici di verificare lo stato fisico degli scioperanti, giunti al 58esimo giorno di calvario, e dopo che un gruppo di donne si era incatenato davanti all’ospedale in segno di solidarietà, lo stesso tribunale di Salto del Guairá ha modificato la sentenza accordando finalmente gli arresti domiciliari.
Ma è una vittoria parziale: la sentenza è prevista in linea di principio per il 26 giugno. E niente dice che giustizia sarà fatta.
(trad. di Marinella Correggia)
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