Para­guay , l’odissea giuridica di cinque «senza terra»

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Si chiama Juana Evan­ge­li­sta Mar­tí­nez. Ha sei figli, dodici anni il mag­giore, cin­que il più pic­colo. A volte piange per­ché non ha cibo per loro. Non ha terra da col­ti­vare, e abita in una casa che le è stata pre­stata. Mor­mora: «Tutto quello che posso fare è lavare bian­che­ria e gua­da­gnare pochi spic­cioli». Suo marito le manca. Si chia­mava Arnaldo Ruiz Diaz. Fu ucciso dalla poli­zia il 15 giu­gno 2012, ad alcuni chi­lo­me­tri da Curu­guaty, a nord-est della capi­tale Asun­ción. All’epoca, la tra­ge­dia fece molta impres­sione in Para­guay. E a ragione: fu il pre­te­sto che ser­viva per rove­sciare il pre­si­dente di cen­tro­si­ni­stra Fer­nando Lugo.

Rie­pi­logo dei fatti: in que­sto paese di 6,7 milioni di abi­tanti, circa 300mila fami­glie di con­ta­dini poveri non hanno accesso alla terra. Nella loca­lità chia­mata Marina Cue, una ses­san­tina di rurali in lotta ave­vano occu­pato 1.089 ettari usur­pati dal grosso pro­prie­ta­rio ter­riero e uomo poli­tico Blas N. Riquelme, ex pre­si­dente del Par­tito colo­rado. Anni prima, il 4 otto­bre 2004, il decreto 3532 fir­mato dal pre­si­dente Nica­nor Duarte aveva dichia­rato quelle terre «di inte­resse sociale» tra­sfe­ren­dole all’Istituto nazio­nale per lo svi­luppo rurale e la terra (Indert), inca­ri­cato della riforma agra­ria. La cosa era nota a tutti, ma non impedì l’irruzione, il 15 giu­gno 2012, di 380 poli­ziotti dotati di armi pesanti, per far slog­giare gli occu­panti dall’accampamento orga­niz­zato. In cir­co­stanze mai chia­rite, parte un colpo di fucile. Panico gene­rale. Alla fine si con­tano 17 morti: 11 con­ta­dini, 6 poliziotti.

«Nes­suno dei nostri aveva mai avuto pro­blemi con la giu­sti­zia, ci con­fi­dava qual­che mese fa Mar­tina Pare­des, i due fra­telli Fer­mín et Luis morti in quel giorno male­detto. Nes­suno aveva armi da com­bat­ti­mento. Ave­vano fucili da cac­cia per­ché man­cava il denaro per com­prare un po’ di carne. Non è con que­sto genere di pistole ad aria com­pressa che si può bucare il giub­botto anti­pro­iet­tile di un poliziotto».

Prima con­se­guenza: accu­sato di aver fomen­tato la vio­lenza con­tro i grandi pro­prie­tari ter­rieri, il pre­si­dente Lugo, la cui poli­tica disturba i potenti, viene desti­tuito dopo un «giu­di­zio poli­tico» di 24 ore. Eppure sulla base dell’articolo 225 della Costi­tu­zione, egli avrebbe dovuto disporre di 5 giorni per orga­niz­zare la pro­pria difesa. Una pro­ce­dura come quella attuata si può chia­mare in un solo modo: colpo di Stato.

Seconda con­se­guenza: pur dichia­rando di non poter pre­ci­sare «a chi appar­tenga la finca nota con il nome di Marina Cue e chi abbia spa­rato con­tro i poli­ziotti», il pro­cu­ra­tore Jalil Rashid fa arre­stare 12 con­ta­dini. Cin­que ven­gono impri­gio­nati; gli altri sette – fra i quali due donne incinte – dopo uno scio­pero della fame di 60 giorni otten­gono il «bene­fi­cio» degli arre­sti domiciliari.

Terza con­se­guenza: sei mesi dopo il mas­sa­cro, il diri­gente Vidal Vega viene assas­si­nato da due sica­rios a volto coperto. «Stava por­tando avanti un’inchiesta paral­lela, pre­cisa chi gli stava vicino, ed era molto corag­gioso. Cono­sceva molte per­sone, molti pic­chia­tori che lavo­ra­vano per la Riquelme e spesso aveva detto che avrebbe testi­mo­niato su quel che sapeva.» Secondo lui, erano stati degli «infil­trati» a pro­vo­care lo scon­tro a fuoco spa­rando al tempo stesso sui poli­ziotti e sui con­ta­dini. E secondo Hugo Richert, ex mini­stro dell’azione sociale nel governo Lugo, «la fac­cenda potrebbe essere stata archi­tet­tata in modo da disporre di un pre­te­sto per­fetto per desti­tuire il pre­si­dente. Mal­grado la pres­sione dei cit­ta­dini, il pro­cu­ra­tore fa inda­gini a senso unico: la tesi è che i con­ta­dini avreb­bero teso un agguato ai poli­ziotti». Delle undici vit­time fra i con­ta­dini, nes­suno si cura. Però…

L’inchiesta giu­di­zia­ria è stata viziata da molte irre­go­la­rità. Un eli­cot­tero della poli­zia aveva sor­vo­lato l’area durante gli eventi; ma la regi­stra­zione video rea­liz­zata dall’alto è miste­rio­sa­mente scom­parsa. Nes­suna peri­zia né inda­gine bali­stica è stata rea­liz­zata per deter­mi­nare chi abbia potuto ucci­dere i sei poli­ziotti. In com­penso, dei bos­soli di armi auto­ma­ti­che rac­colti sul luogo della tra­ge­dia pro­vano che le vit­time appar­te­nenti alle forze dell’ordine non pote­vano essere state pro­vo­cate dalle armi obso­lete dei con­ta­dini. Al tempo stesso, un fucile Mve­rick cali­bro 12 rubato a un ex mili­tare giorni dopo i fatti, e dun­que estra­neo agli stessi, è stato aggiunto agli ele­menti a carico dei «sen­za­terra». Infine, l’8 otto­bre 2013, la giu­dice Janine Rios ha auto­riz­zato il pro­cu­ra­tore Rashid a lasciar per­dere sei dos­sier di prove incri­mi­nanti che egli aveva malau­gu­ra­ta­mente «dimen­ti­cato» di aggiun­gere agli ele­menti d’indagine.

Il 20 marzo scorso, il gruppo del Par­tito demo­cra­tico pro­gres­si­sta (Pdp) ha pre­sen­tato al Senato una serie di foto­gra­fie di con­ta­dini morti e amma­net­tati, evi­den­te­mente vit­time di ese­cu­zioni som­ma­rie. Potrebbe trat­tarsi di sette uomini fra i quali Ave­lino Espi­nola, Adolfo Castro, De los San­tos Agüero, Ricardo Fru­tos e Andrés Rive­ros. Ma la giu­sti­zia si acca­ni­sce sulle fami­glie con­ta­dine. Mariano Castro, un figlio morto e gli altri due in pri­gione, soprav­vive a stento in una delle barac­che dai tetti di lamiera affian­cate da banani ai bordi di una pista piena di buche. Insieme a Marina Pare­des e a un altro vicino, Domingo Noguera, tutti mem­bri della Com­mis­sione delle fami­glie e delle vit­time del mas­sa­cro di Curu­guaty, Mariano ci spie­gava pochi giorni fa: «Qui vivono da venti anni circa tre­cento famiglie.

Secondo l’Indert, que­sta terra ha un pro­prie­ta­rio, Gustavo Ramón Vérez, che è ricer­cato dalla giu­sti­zia ed è spa­rito. Dun­que abbiamo “recu­pe­rato” que­sto posto, ma non abbiamo titolo di pro­prietà e que­sto ci pre­oc­cupa. Può suc­ce­dere di tutto. Ecco per­ché abbiamo cer­cato terra a Marina Cue, ad appena un chi­lo­me­tro da qui».

La for­mula «non è detto che debba andar peg­gio» non si applica al Para­guay. Men­tre que­ste fami­glie povere soprav­vi­vono col­ti­vando otto ettari in modo col­let­tivo, il 5 feb­braio il giu­dice di Curu­guaty, José Beni­tez, ha ordi­nato l’arresto dei tre con­ta­dini suc­ci­tati, per «inva­sione di pro­prietà pri­vata». «È un ten­ta­tivo di deca­pi­tare il gruppo per impau­rire le per­sone» si è indi­gnata Marina Pare­des, dopo la comparizione.

Davanti alla col­lera pro­vo­cata dalla sua deci­sione, il giu­dice ha fatto mar­cia indie­tro, ma di poco: asse­gnando una misura alter­na­tiva alla pri­gione, ha vie­tato agli inda­gati di uscire dal paese, di di avvi­ci­narsi alle terre in que­stione, di cam­biare domi­ci­lio senza auto­riz­za­zione, e ha loro impo­sto una cau­zione di 60 milioni di gua­raní (9.600 euro). Una somma colos­sale, per loro.

Rimane il fatto che dalle celle della pri­gione di Tacumbú cin­que uomini – Adal­berto Castro, Felipe Bal­mori, Rubén Vil­lalba, Arnaldo Quin­tana e Néstor Castro — hanno con­ti­nuato a pro­cla­mare la pro­pria inno­cenza. Il 14 feb­braio, davanti all’inerzia della giu­sti­zia e dei poteri pub­blici, hanno ini­ziato uno scio­pero della fame a tempo inde­ter­mi­nato per chie­dere di essere libe­rati e di poter recu­pe­rare le terre di Marina Cue, e che fini­sca la per­se­cu­zione della lotta con­ta­dina. «Siamo in pri­gione, sosten­gono, senza che la Pro­cura abbia pre­sen­tato una sola prova seria della nostra colpevolezza».

Il potere fa orec­chie da mer­cante. In uno stato sem­pre più pre­ca­rio, estre­ma­mente inde­bo­liti, ormai inca­paci di muo­versi, i cnque con­ta­dini, ognuno dei quali ha perso fra i dieci e i quin­dici chili, sono stati alla fine tra­spor­tati all’ospedale mili­tare di Asun­ción. L’8 aprile, dopo una veglia di pre­ghiera nella cat­te­drale, un migliaio di per­sone ha par­te­ci­pato a una mar­cia per chie­dere la loro libe­ra­zione. In un primo tempo, senza risul­tato: il 9 aprile, al 54esimo giorno di scio­pero della fame, il tri­bu­nale di Salto del Guairá, pre­sie­duto dal giu­dice Ramón Tri­ni­dad Zelaya, rifiu­tava gli arre­sti domi­ci­liari chie­sti dalla difesa, rite­nendo che «nes­sun ele­mento di novità» legit­ti­masse que­sta misura, visto che «i segni vitali dei dete­nuti erano nor­mali», che i dete­nuti erano «lucidi» e rice­ve­vano appro­priate cure mediche.

In una let­tera resa pub­blica il primo aprile, i cin­que ave­vano annun­ciato in anti­cipo la deci­sione di non porre fine alla loro pro­te­sta, sot­to­li­neando: «Se uno di noi muore, lo Stato para­gua­yano e la fami­glia Riquelme saranno respon­sa­bili davanti al popolo e alla sto­ria». Insieme alla pres­sione a livello nazio­nale e inter­na­zio­nale, que­sta pro­spet­tiva ha final­mente indotto a più miti con­si­gli il governo di Hora­cio Car­tes. Il 12 aprile, dopo aver chie­sto a un gruppo di medici di veri­fi­care lo stato fisico degli scio­pe­ranti, giunti al 58esimo giorno di cal­va­rio, e dopo che un gruppo di donne si era inca­te­nato davanti all’ospedale in segno di soli­da­rietà, lo stesso tri­bu­nale di Salto del Guairá ha modi­fi­cato la sen­tenza accor­dando final­mente gli arre­sti domiciliari.

Ma è una vit­to­ria par­ziale: la sen­tenza è pre­vi­sta in linea di prin­ci­pio per il 26 giu­gno. E niente dice che giu­sti­zia sarà fatta.

(trad. di Mari­nella Cor­reg­gia)


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