by redazione | 1 Aprile 2014 11:45
ROMA — Il rischio era che la chiusura sarebbe stata posticipata di tre anni, al 2017. Era l’auspicio delle Regioni. E sarebbe stato un vero scandalo dopo il primo rinvio del 2013. La fine dei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani, infatti, doveva avvenire oggi, dodici mesi più tardi. Un decreto del Consiglio dei ministri ha rimandato lo stop definitivo. Ma lo slittamento è stato almeno limitato: i manicomi situati all’interno delle carceri finiranno di funzionare il 31 marzo 2015. È il risultato delle sdegnate proteste. In testa il sindaco di Roma Ignazio Marino che la scorsa settimana si è appellato al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, molto sensibile al tema tanto da menzionarlo nel messaggio di fine d’anno del 2012: «Basta con i luoghi dell’orrore».
La proroga però è stata necessaria. Non sono ancora pronte le strutture che dovranno ospitare le persone detenute (circa 890 in base alla stima di Giuseppe Dall’Acqua, capo del dipartimento di Salute mentale di Trieste, 1.051 secondo il Coordinamento interregionale Sanità penitenziaria). Le strutture in chiusura sono gli Opg di Castiglione delle Stiviere (Lombardia), Reggio Emilia (Emilia Romagna), Montelupo Fiorentino (Toscana), Secondigliano e Aversa (Campania), Barcellona Pozzo di Gotto (Sicilia).
«È stato un passo obbligato per il ritardo accumulato da non poche Regioni italiane per quanto riguarda i piani di riconversione», chiarisce il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Per scongiurare altre proroghe verrà compiuto a metà anno «un puntuale monitoraggio del percorso di riconversione prevedendo anche ipotesi di poteri sostitutivi nei confronti degli inadempienti». Il problema è la realizzazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitarie), le strutture alternative dove verranno trasferiti i detenuti psichiatrici. «Piccoli ospedali giudiziari che in teoria non dovrebbero avere personale carcerario ma solo riabilitatori e medici. Concepite in base al numero degli internati, ad esempio sei in Lombardia, uno in Emilia Romagna», li descrive Giandomenico Doda, ricercatore della Bicocca, docente di diritto penale. Che denuncia: «Nell’80% dei reparti ancora si usa legare».
Alcune Regioni hanno presentato al ministero della Salute i progetti per richiedere i finanziamenti. «Noi non abbiamo nessun interesse a perdere tempo — dice l’assessore Carlo Lusenti, Emilia Romagna — siamo impegnati nei percorsi della presa in carico ma dobbiamo essere sostenuti da Salute, Giustizia e magistratura. Dieci Regioni sono pronte. E poi devono decidere cosa fare dei detenuti più pericolosi». Dall’Acqua riconosce che la situazione è migliorata. Gli internati dai 1.400 del 2010 sono oggi 890: «Mai toccate punte così basse. Chi è uscito è tornato nel suo luogo di residenza oppure in comunità. L’augurio è che i nuovi centri non siano aree di parcheggio ma di terapia».
Margherita De Bac
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