Orbán padrone d’Ungheria Ma l’ultradestra non sfonda

by redazione | 7 Aprile 2014 9:45

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Maggioranza «costituzionale» al premier BUDAPEST — L’Ungheria è ancora Viktor Orbán e Viktor Orbán è ancora l’Ungheria. Si è proposto come padre della nazione e il popolo magiaro gli ha dato nuovamente fiducia. Il premier nazionalista ha vinto le elezioni politiche, infliggendo una grave sconfitta all’opposizione di centro-sinistra, che non è riuscita a contrastarlo. Ma un successo, pur non facendo l’exploit, può vantarlo anche Jobbik, il partito neofascista e antisemita, che vorrebbe condizionare da destra il capo del governo e che spesso gli ha fornito un alibi per le sue misure più controverse
Le dimensioni della vittoria di Orbán non erano però definitive ancora nella tarda serata. Quando era stato contato quasi il 90% delle schede, Fidesz, il partito del primo ministro, aveva circa il 45% dei consensi, 7 punti in meno del 2010, flessione quasi fisiologica dopo 4 anni al potere. L’Alleanza democratica di centristi, liberali e socialisti non superava il 25%, a conferma di una strutturale incapacità di offrire una risposta non sciovinista alle ansie e alle speranze degli ungheresi. Salivano invece dal 16,7% al 21% per cento gli estremisti di Jobbik, confermando il loro sinistro radicamento nella società magiara, ma fallendo l’obiettivo del secondo posto, cui avevano puntato con una campagna in doppiopetto.
L’incertezza riguardava la distribuzione dei seggi in seno all’Orszaghaz, il Parlamento di Budapest, ridotto da 386 a 199 deputati. Mancavano infatti pochi seggi a Viktor Orbán per riconfermare nella Casa della Nazione la maggioranza dei 2/3, che gli ha permesso di rimodellare il Paese in senso autoritario. Sarebbe un trionfo e un segnale verde a proseguire sulla strada, che lo reso popolare ma lacerante in patria e controverso in Europa. Se invece Orbán dovesse accontentarsi «solo» di una maggioranza assoluta, l’opposizione avrebbe una base migliore da cui ripartire, ma si aprirebbero pericolosi spazi di manovra per la destra razzista e xenofoba.
Alle 11 di sera, il premier si è presentato raggiante davanti ai suoi sostenitori, riuniti lungo un argine del Danubio. Con dietro lo sfondo spettacolare della collina di Buda illuminata, Orban è apparso commosso e ispirato: «Ogni dubbio è svanito, abbiamo vinto. Fidesz ha il record europeo dei consensi. Possiamo essere fieri: siamo il Paese più omogeneo d’Europa. Il popolo ungherese ha detto no all’odio. Il nostro posto è nell’Unione europea ma con un forte governo nazionale. Lavorerò tutti giorni per far diventare l’Ungheria un Paese magnifico”. E’ stata una campagna elettorale completamente polarizzata intorno alla sua figura. Con buone ragioni, gli avversari lo hanno accusato di aver manipolato la democrazia, imponendo una nuova Costituzione che di fatto elimina ogni controllo e mette sotto il dominio del governo gli organi di garanzia, la giustizia, la banca centrale, perfino le istituzioni culturali. Orbán ha anche messo il bavaglio ai media e limitato l’accesso alla pubblicità elettorale per i suoi avversari. Di più, la sistematica occupazione dello Stato da parte di Fidesz ha alimentato un sistema clientelare e onnivoro, ribattezzato la «piovra magiara».
Ma sul piano economico, la sua stravagante ricetta di populismo, protezionismo e liberismo, ha funzionato. Almeno per la classe media, che ha visto migliorare sensibilmente le proprie condizioni, mentre più di 4 milioni di ungheresi rimangono sotto la soglia di povertà. L’ex eroe del dissenso anti-sovietico ha ridotto le tasse, le tariffe elettriche e quelle telefoniche, ma ha imposto balzelli da Robin Hood su banche e multinazionali straniere. Ha incassato 5 mila miliardi dai fondi europei, ma ha inveito contro la dittatura dell’Ue, additata come il nemico. Soprattutto si è ammantato dei simboli nazionali, agitando la retorica del Paese negletto e accusando chi dissente di tradire l’Ungheria.
Alla fine Viktor Orbán ha avuto ragione. E qualunque sarà l’esito, sarà ancora lui il volto dell’Ungheria in Europa. Alla vigilia di un’elezione continentale che si annuncia nel segno dei populismi anti-europei, il tribuno di Budapest che semina tempesta e raccoglie miliardi, rischia di rivelarsi un inquietante battistrada.
Paolo Valentino

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