Non sparate sulla web generation

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NEW YORK — È un viaggio da esploratori in una terra sconosciuta: la vita segreta degli adolescenti nel mondo dei social network. È quella conoscenza di prima mano, diretta, da “insider”, che molti di noi vorrebbero avere: genitori di teenagers, insegnanti, psicologi o magistrati, legislatori o esperti di marketing. Tutto quello che avremmo voluto sapere sul comportamento digitale dei nostri figli, su ciò che fanno quando dialogano su Facebook o Twitter, ce lo racconta una ricercatrice americana. Danah Boyd ha investito otto anni della sua vita, per immergersi in questo mondo. It’s complicated.
The Social Lives of Networked Teen (“ E’ complicato. Le vite sociali degli adolescenti collegati in rete”, Yale University Press), è il riassunto del suo lavoro. L’autrice ha una competenza rara, che l’ha portata a contatto con i ragazzi in tanti modi: la Boyd è al tempo stesso ricercatrice di Harvard, docente alla New York University, ed è anche responsabile di un progetto di ricerca di Microsoft. Se ne intende di tecnologie, di social network, e anche di ragazzi. Con questi ultimi ha privilegiato l’approccio empirico: ne ha intervistati a migliaia, in 18 Stati Usa; poi li ha seguiti attraverso le “tracce” che lasciano su Facebook, sui blog. Li ha frequentati individualmente o in gruppi, incontrandoli nei licei, nei fast-food, negli shopping mall. È un grande viaggio dentro la vita digitale dei ragazzi di oggi, ma non li tratta come una razza strana: dà la parola a loro, per la prima volta sono gli adolescenti che possono «informare il discorso pubblico sulle loro vite nei social network». E poi la Boyd ci fa da interprete, letteralmente, “traduce” le loro aspirazioni, i loro bisogni, confrontandoli con le nostre paure.
Una prima scoperta della Boyd è questa: i teenagers di oggi “devono” socializzare usando Facebook, per mancanza di altri spazi di ritrovo con i loro coetanei. «Molti adolescenti — scrive la ricercatrice — hanno meno libertà di muoversi, meno tempo libero, e più regole», dei loro genitori o nonni. La pressione scolastica è aumentata. Non si usa più passare ore di tempo libero a spasso con gli amici dopo la scuola. Facebook, Twitter, le foto con l’instant messaging, sostituiscono quello che era il cinema drive-in negli anni Cinquanta e lo shopping mall negli anni Ottanta. Ogni generazione di adolescenti ha uno spazio differente che decide come lo spazio “cool”. Oggi lo spazio “cool” per frequentare gli amici si chiama Facebook, Twitter, Instagram”. Gli adulti non lo capiscono perché interpretano questi fenomeni deformandoli alla luce delle proprie ossessioni, fobie, nostalgie e ricostruzioni distorte del passato. Una parte della “decodificazione” che la Boyd deve fare per superare le incomprensioni, riguarda il mondo degli adulti. «Molti genitori si sono reinventati la propria infanzia, ricordandola come un luogo molto migliore, più ricco, più facile e più sicuro di quanto fosse in realtà». Il bullismo o la pedofilia esistevano senza Internet, probabilmente più feroci perché meno sanzionati dai valori dominanti. «Molti adulti — spiega la Boyd — temono le tecnologie dei social network per le stesse ragioni per cui gli adulti sono spesso stati diffidenti sulla partecipazione dei giovani alla vita pubblica, anche quando si svolgeva nei parchi, negli shopping mall, negli altri luoghi in cui si aggregava la gioventù. I social media come Facebook e Twitter offrono ai teenagers nuove opportunità di partecipare alla vita pubblica, e questo più di ogni altra cosa genera ansia tra gli adulti”. La storia si ripete: la Boyd ricorda altre «tecnologie di comunicazione » che furono accolte con diffidenze, pregiudizi e sospetti: ai tempi di Madame Bovary i coetanei di Gustave Flaubert consideravano pericoloso per le donne leggere romanzi; negli anni Cinquanta il rock & roll fu bollato come un’istigazione alla delinquenza minorile. Un aspetto fondamentale da tenere presente per capire la differenza tra “noi” e “loro”: noi adulti siamo degli “immigrati digitali”, non siamo nati dentro questo universo tecnologico, come degli immigrati in una terra straniera ne scopriamo le regole faticosamente, ci muoviamo con timore e sospetto; i giovani sono dei “nativi digitali”, per loro questo è l’unico universo noto, sono cresciuti dentro le sue regole. Possono essere “nativi” ma anche “naif”. Quello che scopre la Boyd, parlando con loro, è che anche il mondo dei teenagers è traversato da profonde differenze. Non tutti sono uguali davanti alla Rete. Possono essere di una ingenuità disarmante, e magari per questo cadere vittime dei pregiudizi degli adulti. Corinne, tredicenne del Massachusetts, si vanta di «non usare mai Wikipedia ». Perché? «Ho sentito che quel che c’è scritto non è vero, se devo cercare qualcosa su Internet vado su Google». Sono i professori di Corinne che glielo hanno detto, a scuola. Alla larga da Wikipedia, le hanno intimato, «perché chiunque può redigere le voci di questa enciclopedia ». Gli adolescenti, di riflesso, venerano la “neutralità” del motore di ricerca di Google, anche perché pochissimi tra loro sanno come funziona l’algoritmo che seleziona i risultati della ricerca, la possibilità di manipolarlo, e la motivazione commerciale che anima un’azienda come Google (a differenza di Wikipedia, fondata sul volontariato). Un’altra studentessa del Massachusetts, Kat, concorda: «Wikipedia è una cosa brutta, perché non sai chi ci scrive». L’ignoranza degli adulti — in questo caso la categoria degli insegnanti liceali — contagia i giovani, nessuno li addestra a discernere le fonti, nessuno gli insegna come usare costruttivamente un’enciclopedia online.
Pochi temi sono così incompresi come la privacy. E’ un luogo comune dire che gli adolescenti sottovalutano i pericoli per la loro riservatezza, si “denudano” (talvolta in senso letterale) su Facebook senza valutarne le conseguenze. Migliaia di interviste della Boyd rivelano l’equivoco profondo. I teenagers sono preoccupati della loro privacy, eccome. Però hanno una gerarchia di timori ben diversa da quella dei genitori.
Quasi nessuno teme di essere “spiato dal governo”, né si spaventano che Google o Facebook saccheggino le loro conversazioni a scopi commerciali, di pubblicità e marketing. «Ma ogni adolescente vuole privacy — protesta il 17enne Waffles della North Carolina — è ignoranza da parte degli adulti dire che non vogliamo proteggerci». Il loro timore principale, sono i genitori. La paura di una sorveglianza intrusiva degli adulti, spinge ai ragazzi a riscoprire tecniche antichissime come la “steganografia”: linguaggi in codice, che usano ad esempio delle canzoni popolari come messaggi cifrati, sapendo che potranno essere decodificati solo
dai coetanei e non dai genitori o dagli insegnanti. Contrariamente a quel che pensiamo sui giovani che vanno allo sbaraglio nei social network, pronti a confidarsi con degli sconosciuti, inconsapevoli dei pericoli che corrono, «gli adolescenti oggi riproducono online le dinamiche sociali pre-esistenti, sono poco inclini a costruirsi nuovi rapporti e nuove relazioni che diversifichino la loro visione del mondo». Non solo diffidano degli adulti, ma anche dei propri coetanei che appartengono a un altro ceto sociale, il che «contraddice la retorica su Internet come il grande livellatore che azzera le diseguaglianze». La rappresentazione migliore, la Boyd la trova assistendo a una partita di football. I genitori sugli spalti sono continuamente distratti dai propri telefonini, loro sì sono catturati dalle nuove tecnologie, prigionieri nel vortice del multi-tasking. I ragazzi invece usano gli smartphone per comunicare coi propri compagni dentro lo stadio, scambiarsi foto e apprezzamenti sulla partita, in un «prolungamento della loro esperienza comunitaria» che in fin dei conti è meno alienante di ciò che accade agli adulti. I social network sono degli spazi dentro i quali i ragazzi «si costruiscono una personalità e un’identità, lavorano per conquistarsi un posto nella gerarchia di gruppo, e aspirano ad avere una voce in una vita pubblica ». La Boyd ricorda il monito lanciato nella Dichiarazione d’Indipendenza del Cyberspazio da John Perry Barlow, “libertario digitale” nonché autore delle canzoni dei Grateful Dead: «Voi siete terrificati dai vostri figli, perché sono nativi in un mondo dove voi sarete sempre immigrati. Poiché li temete, delegate alle burocrazie le responsabilità che nella vostra codardia non volete assumervi».



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