by redazione | 14 Aprile 2014 7:57
SLAVIANSK TUTTI sul ponte. A pregare con icone e libri sacri sotto la pioggia; a chiedersi quanto durerà, se «è vero che ci sono dei morti?»; a fissare con preoccupazione quelle colonne di fumo nero dalle parti del cementificio nella periferia nord. E con una determinazione che mette paura: «Da qui non ci muoviamo, siamo pronti a morire».
È una folla modesta e agguerrita quella che si è precipitata in strada all’alba a bloccare con barricate artigianali, vecchi mobili, carcasse d’auto, l’accesso a questo antico borgo industriale di poco più di centoventimila abitanti nel lembo orientale dell’Ucraina russa. Qui, sul fiume Kazionnyj Torets che scorre tortuoso attorno a Slaviansk, c’è una nuova linea di frontiera spontanea che isola tutto il centro abitato dall’arrivo di una potenziale “forza speciale antiterrorismo” dell’esercito ucraino. Secondo il governo di Kiev i due blocchi si sarebbero già scontrati con una vera e propria sparatoria, ci sarebbero tre morti, cinque feriti. «Una chiara azione di guerra ordita da Mosca», dichiara il presidente ad interim Oleksandr Turcinov che minaccia ulteriori operazioni nella notte per liberare edifici e città dell’Ucraina orientale in rivolta. E Mosca urla con la voce possente del ministro degli Esteri Sergej Lavrov: «Fermatevi. Non potete fare la guerra contro il vostro popolo ».
Nei pressi del ponte di Slaviansk invece non c’è traccia di combattimenti né di operazioni militari. I racconti di un presunto scontro a fuoco sono confusi e contraddittori. A parte un paio di elicotteri in perlustrazione sotto alle nuvole basse, la scena è tutta di una folla di cittadini decisi a fare la rivoluzione. Ci sono i soliti giovani in tuta mimetica, muscolosi e apparentemente anche ben addestrati, che organizzano i turni di guardia, controllano i documenti a ogni nuovo arrivato, gestiscono la cosiddetta logistica con fare autoritario. Uno mostra pure un kalashnikov avuto chissà come ma che non scandalizza nessuno. Anzi, a molti ribelli, trasmette anche una certa sicurezza. Gli altri, almeno un migliaio, sono uomini e donne più o meno di mezza età. Infermiere del vicino ospedale, pensionati, operai del complesso metallurgico Slavonik o degli impianti chimici Slavtyzamash, un tempo
orgoglio dell’industria sovietica e adesso divorati dalla crisi. Come la premiata fabbrica di matite usate da molti bambini dell’Urss, chiusa da anni, e ormai ricordata solo da quei tre giganteschi lapis colorati che ancora adornano l’accesso alla città ribelle.
Attorno a un fuoco di legna che brucia dentro a un bidone della spazzatura si fa il punto della situazione, cercando di capirci qualcosa tra notizie vere, falsità clamorose. Un operaio cinquantenne dal volto paonazzo scandisce nome e cognome prima di dire la sua, tanto per fare vedere che non ha paura di nessuno: «Mi chiamo Yiurij Galovan e sono stanco di essere trattato come un cittadino di seconda categoria. I russi ci hanno consegnato agli ucraini dopo la fine dell’Urss; gli ucraini ci hanno depredato. Anche Yanukovich ha rubato tutto quello che poteva. Adesso a Kiev hanno fatto la rivoluzione e
vogliono decidere per noi? Vogliono la Nato, l’Europa, la rottura con la Russia? E io, non conto proprio niente?».
E il capannello diventa un coro: i russi di Ucraina vogliono un referendum che possa trasformare lo Stato in un’entità federale. Lo vogliono prima delle elezioni presidenziali del 25 maggio in modo che il nuovo presidente debba fare i conti anche con loro.
Sotto la pioggia del ponte di Slaviansk sembra quasi una cosa semplice da realizzare. Ma non è così. Il governo di Kiev minaccia di continuo attacchi risolutivi ma non si capisce come potrebbe fare senza provocare una guerra civile vera e propria. Ieri tutta la cartina geografica dell’Est ucraino si è riempita di cittadine e stazioni di polizia occupati dai “russi” da Marjupol a Kramatorrsk. E la determinazione è contagiosa. A Donetsk, nel palazzo della Regione occupato in stile militare da una settimana, è bastato un appello a «correre in aiuto dei nostri fratelli delle altre provincie» per radunare centinaia di volontari pronti a menar le mani.
Mosca continua a mettere in guardia Kiev da azioni pericolose e «irreparabili» e ha ottenuto la convocazione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu per proporre un suo piano. La polizia ucraina invece di rinforzi prepara licenziamenti in massa delle migliaia di agenti che si sarebbero rifiutati di intervenire contro i propri connazionali. E il ministro degli interni di Kiev, Arsenj Avakov, mette benzina sul fuoco annunciando l’idea di dare armi e autorità a non meglio identificati “giovani patrioti”. Cioè a quegli esponenti di estrema destra che hanno partecipato alla rivoluzione della Majdan. Yiurij Galovan la prende come una sfida: «Mandano i fascisti? Vuol dire che faremo come i nostri nonni nel ‘42. Combatteremo per liberare la nostra terra».
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