Moby Prince, è giallo sui tempi della strage

by redazione | 10 Aprile 2014 10:11

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Trenta minuti per la pro­cura di Livorno. Non meno di sette-otto ore per i fami­liari di quanti mori­rono nell’incidente. E’ anche tra que­sti due diversi spazi tem­po­rali — che segnano il tempo di soprav­vi­venza delle vit­time — che si nasconde la verità sulla tra­ge­dia del tra­ghetto Moby Prince che la sera del 10 aprile del 1991, nel porto di Livorno, entrò in col­li­sione con la petro­liera Agip Abruzzo. Nell’incendio che ne seguì mori­rono 140 per­sone tra equi­pag­gio e pas­seg­geri. Un nor­male col­le­ga­mento di linea tra il porto toscano e quello di Olbia divenne così il più grave inci­dente della marina civile ita­liana e allo stesso tempo la più grande strage sul lavoro sulla quale ancora non è stata fatta giu­sti­zia. 23 anni, due pro­cessi e un’inchiesta bis finita con un’archiviazione non sono bastati infatti a far luce su quella tra­ge­dia. Adesso potrebbe pro­varci una com­mis­sione d’inchiesta par­la­men­tare che per il suo lavoro potrà avva­lersi anche del dos­sier messo a punto dalle Asso­cia­zioni «10 aprile» e «140» che riu­ni­scono i fami­liari delle vit­time del Moby Prince. Il dos­sier, già con­se­gnato all’ex mini­stro di Giu­sti­zia, Anna Maria Can­cel­lieri, e di cui è infor­mato anche l’attuale mini­stro Andrea Orlando, si basa su nuove peri­zie rea­liz­zate dallo stu­dio Bar­dazza di Milano e offre spunti inve­sti­ga­tivi ine­diti. A chie­dere l’istituzione della com­mis­sione d’inchiesta sono stati invece Sel e M5S. «Nei pros­simi giorni incon­trerò la pre­si­dente Laura Bol­drini per deci­dere i tempi di discus­sione delle pro­po­ste di legge», assi­cura il depu­tato di Sel Michele Piras. «Se c’è la volontà poli­tica, al mas­simo in un paio di set­ti­mane la com­mis­sione potrebbe comin­ciare a lavo­rare». Sono almeno quat­tro i punti su cui potrebbe inda­gare per arri­vare alla verità e riguar­dano la pre­senza di neb­bia la sera dell’incidente, tracce di esplo­sivo rin­ve­nute nei locali delle eli­che e la posi­zione delle due navi, Moby Prince e petro­liera Agip Abruzzo, al momento della col­li­sione. Insieme a un inter­ro­ga­tivo che sem­bra essere deter­mi­nante nella rico­stru­zione dell’incidente. Per­ché, una volta par­tito per la Sar­de­gna, il tra­ghetto della Navarma decise improv­vi­sa­mente di inver­tire la mar­cia facendo rien­tro in porto.

Sono le 22.03 di 23 anni fa quando il Moby Prince muove dalla ban­china Calata Car­rara numero 55 in dire­zione Olbia. Siamo ancora in bassa sta­gione e la nave è quasi vuota. A bordo, oltre ai 66 mem­bri dell’equipaggio, ci sono infatti solo 75 pas­seg­geri, cop­pie in viag­gio di nozze, fami­glie che fanno rien­tro sull’isola dopo un periodo di vacanza in con­ti­nente, gio­vani desi­de­rosi solo di immer­gersi nelle acque lim­pide della Sar­de­gna. La pre­senza di pochi pas­seg­geri è testi­mo­niata anche dalle vet­ture, appena 31, par­cheg­giate nel garage. A seguire le ope­ra­zioni in plan­cia di comando, c’è il coman­dante del tra­ghetto Ugo Chessa, 54 anni, sardo ori­gi­na­rio di la Spe­zia. Chessa è un mari­naio esperto. Prima di arri­vare alla Navarma è stato a bordo di navi impe­gnate su rotte ocea­ni­che, sa come muo­versi in caso di neb­bia o di mare in tem­pe­sta. Abile a tal punto da essere stato scelto in pas­sato dal miliar­da­rio sau­dita Adnan Kashoggi come coman­dante del suo pan­filo, il Nabila.

Quella notte nel porto c’è un note­vole traf­fico marit­timo. Oltre al Moby Prince, sono segna­late infatti anche 5 navi della Nato di ritorno dal Golfo Per­sico e cari­che di armi dirette alla base di Camp Darby, un mer­can­tile che tra­sporta gra­na­glie, diversi pesche­recci, una gasiera nor­ve­gese e due petro­liere della Snam. Ed è pro­prio a bordo di una di que­ste, che poi si sco­prirà essere l’Agip Abruzzo, che verso le 22,15 si sarebbe svi­lup­pata una nuvola di fumo bianco, segno di un pos­si­bile incen­dio. La scena viene vista da due guar­da­ma­rina dell’Accademia navale che si tro­vano nei loro alloggi. Nel frat­tempo il tra­ghetto sta seguendo la sua rotta che lo con­duce fuori dal porto. Alle 22.25.03 sul canale 16, quello di emer­genza e uti­liz­zato per comu­ni­care con la capi­ta­ne­ria di porto, si sente la frase: «Chi è quella nave?». Poi il silen­zio. È il momento della col­li­sione tra il tra­ghetto e l’Agip Abruzzo che tra­sporta 80 mila ton­nel­late di greg­gio. «Il boato è forte come un ter­re­moto, viene udito in tutta la nave e lo stri­dore della lamiere delle due navi che si accar­toc­ciano l’una sull’altra mette i bri­vidi», è la rico­stru­zione di quei momenti che si può leg­gere sul sito dedi­cato dai fami­liari delle vit­time alla tra­ge­dia. Del Moby si sal­verà una sola per­sona, il mozzo Ales­sio Bertrand.

Per la pro­cura di Livorno a pro­vo­care la tra­ge­dia fu un banco di neb­bia calato improv­vi­sa­mente intorno alla petro­liera e alcuni errori com­piti dall’equipaggio del tra­ghetto e in par­ti­co­lare del coman­dante Ugo Chessa. E nulla si sarebbe potuto fare, più quanto è stato fatto, per sal­vare quanti si tro­va­vano a bordo. Che, secondo i periti della pro­cura, mori­rono tutti nel giro di trenta minuti. Rico­stru­zione dura­mente con­te­stata dai fami­liari delle vit­time. «La mat­tina dopo — rac­conta Luchino Chessa, figlio del coman­dante del Moby — pro­prio men­tre il tra­ghetto veniva tra­sci­nato in porto, alcune foto riprese da un eli­cot­tero immor­ta­la­rono un uomo disteso sulle lamiere roventi della poppa del tra­ghetto, semi­nudo. Doveva essere appena uscito allo sco­perto e poco dopo crol­lato sul ponte. L’aspetto più dram­ma­tico avviene men­tre il tra­ghetto viene tra­sci­nato verso il porto, quando l’uomo va incon­tro ad auto­com­bu­stione e viene poi tro­vato car­bo­niz­zato. E’ chiaro che come lui è pos­si­bile anche anche altri pas­seg­geri pos­sano essere soprav­vis­suti per qual­che ora». Inol­tre, pro­se­gue la rico­stru­zione delle due asso­cia­zioni di fami­liari, ci sarebbe un’altra prova dell’esistenza di super­stiti a bordo del tra­ghetto. E sono le impronte tro­vate sulla auto bru­ciate che si tro­va­vano nel garage. «Segno che qual­cuno è pas­sato da lì dopo il fuoco, forse in un dispe­rato ten­ta­tivo di sal­varsi», pro­se­gue Chessa.

Che ci fosse qual­cosa che non va nelle inda­gini con­dotte a suo tempo dalla pro­cura di Livorno e nel pro­cesso che ne seguì, lo dicono anche i giu­dici del tri­bu­nale di Firenze chia­mati a giu­di­care in appello sul filone prin­ci­pale dell’inchiesta. Come è scritto nel dos­sier con­se­gnato al mini­stro della Giu­sti­zia Orlando: «Scri­vono i giu­dici fio­ren­tini che il col­le­gio giu­di­cante del primo pro­cesso Moby Prince, archi­trave di ogni altro pro­ce­di­mento, ha tenuto conto di testi­mo­nianze ‘pale­se­mente false’ negato testi­mo­nianze pale­se­mente vere e per­sino pre­sen­tato una dedu­zione ‘apo­dit­tica’ — cioè dog­ma­tica senza alcuna prova a sup­porto — su un video ama­to­riale che con­fu­tava la tesi poi finite in sen­tenza circa l’orientamento della petro­liera al momento delle collisione».

Ci sono diversi punti su cui adesso la com­mis­sione d’inchiesta, se verrà appro­vata, dovrà fare luce. Oltre a sta­bi­lire per quanto tempo a bordo del tra­ghetto ci sono state per­sone vive, e quindi even­tuali respon­sa­bi­lità da parte dei soc­corsi (tutti assolti nel pro­cesso di primo grado), c’è una defor­ma­zione riscon­trata nel locale delle eli­che. Secondo i periti della pro­cura, sarebbe dovuta a un accu­mulo di gas che poi sarebbe esploso. Ma secondo i risul­tati rag­giunti da un altro perito, sem­pre della pro­cura di Livorno, nei locali sareb­bero state pre­senti tracce di un esplo­sivo, il Sen­tex H.

«Non ci piac­ciono i com­plotti, e quindi non fac­ciamo nes­suna ipo­tesi», pre­cisa Chessa. «Vogliamo però che si cominci a inda­gare senza lasciare nulla di inten­tato». Nes­sun com­plotto, dun­que, nean­che per quanto riguarda la pre­senza in quelle acque di navi della Nato cari­che di armi. Una della quali cerca anche di nascon­dersi fal­si­fi­cando il pro­prio nome quando parla con la «nave uno» con la quale si iden­ti­fica come «The­resa», ma che in realtà, come poi si è sco­perto, si tratta della Gallant2. Per­ché ha nasco­sto la pro­pria iden­tità? Per quanto al momento sem­bre­rebbe escluso ogni coin­vol­gi­mento delle navi nell’incidente, resta sem­pre il fatto che la Nato non ha for­nito ai magi­strati i trac­ciati radar di quella notte in suo possesso.

Ci sono infine due altri punti da chia­rire. Il primo riguarda il luogo in cui l’Agip Abruzzo era ormeg­giata. Secondo la nuova peri­zia — che con­tra­sta con quanto affer­mato nel pro­cesso di primo grado — la petro­liera avrebbe get­tato l’ancora in un punto proi­bito del porto, tro­van­dosi dun­que in una posi­zione irre­go­lare. E poi c’è la strana mano­vra com­piuta dal Moby Prince. Per la pro­cura di Livorno la col­li­sione sarebbe avve­nuta men­tre il tra­ghetto pun­tava la sua rotta dritta per Olbia poco distante all’uscita dal porto. Un video ama­to­riale ripreso da terra, da subito acqui­sito agli atti, mostra invece la petro­liera in fiamme con lo spec­chio di mare anti­stante libero e illu­mi­nato dal river­bero delle fiamme che si tro­vano die­tro la petro­liera e che fanno intra­ve­dere la sagoma di una nave, il Moby. Quindi il tra­ghetto sarebbe entrato in col­li­sone durante una mano­vra di rien­tro in porto. Mano­vra rima­sta fino a que­sto momento incomprensibile.

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Moby Prince, adesso spuntano dubbi anche sulla superperizia

Interrogazione al senato. Con il dossier preparato dai parenti delle vittime

Non solo dubbi e misteri. Adesso c’è anche il sospetto di una peri­zia viziata da un con­flitto di inte­ressi che, se con­fer­mato, potrebbe aver con­di­zio­nato la scelta della pro­cura di Livorno di chiu­dere nel 2010 con un’archiviazione l’inchiesta bis sulla tra­ge­dia. A sol­le­vare i nuovi dubbi è sem­pre il dos­sier pre­pa­rato dai fami­liari delle vit­time del Moby Prince e ripreso in un’interrogazione pre­sen­tata dai sena­tori Pd Luigi Man­coni e Sil­vio Lai ai mini­stri della Giu­sti­zia e Difesa, Andrea Orlando e Roberta Pinotti. Nell’interrogazione si mette in evi­denza come il perito nomi­nato della pro­cura di Livorno, l’ingegnere Andrea Gen­naro, avesse tra i suoi clienti sia l’Eni, società che con­trol­lava la Snam, arma­trice della petro­liera Agip Abruzzo, che la Moby Lines, società suben­trata alla Navarma, arma­trice del Moby Prince. La rela­zione, depo­si­tata il 20 novem­bre del 2009, costi­tui­sce un docu­mento impor­tante per indi­riz­zare le respon­sa­bi­lità della tra­ge­dia verso il coman­dante del tra­ghetto visto che, come ricor­dano Lai e Man­coni «su que­sta rela­zione si incar­di­nano 4 dei 7 punti che pale­se­reb­bero le respon­sa­bi­lità esclu­sive del comando del tra­ghetto per la tragedia».

Nell’interrogazione si sot­to­li­nea come la con­su­lenza sia «redatta su carta inte­stata della Cgm Canepa Gen­naro Marine società che risulta essere domi­ci­liata in via G. D’Annunzio 2/88 a Genova, sede che è anche dello stu­dio di Inge­gne­ria navale e mec­ca­nica Sinm. Dal siti inter­net dello Sinm risul­tava che l’ingegnere Andrea Gen­naro è stato il refe­rente dello stu­dio per un accordo com­mer­ciale con la società Nor­bulk enter­prise ship mana­ge­ment (NESM)», ma sono pre­senti anche i loghi dei clienti, tra i quelli «sia il logo Eni che il logo Moby, società entrambe coin­volte nella tra­ge­dia». Inter­vi­stato da un quo­ti­diano, l’ingegnere Gen­naro non ha negato le col­la­bo­ra­zioni, affer­mando però di non ricor­dare il periodo in cui le svolse.

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