by redazione | 18 Aprile 2014 16:24
Razzismo. Nonostante molte voci “contro”, tra cui quella del Comune di Milano e di alcuni esponenti del Pd nazionale, il governo ha deciso di riaprire il Cie milanese. Alla fine dell’anno la struttura concentrazionaria simbolo del fallimento delle politiche per l’immigrazione verrà affiancata da un Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Le associazioni milanesi e i sindacati protestano e preparano una manifestazione di protesta
L’immigrazione? Non c’è più. Il turbo governo di Renzi ha risolto la “questione” eliminandola dal discorso politico, così come sono spariti una ministra e un ministero nel silenzio generale. E non c’è nemmeno lo straccio di una delega a qualche sottosegretario. Non è un disimpegno ma un’indicazione precisa: ordine pubblico e galere regoleranno la “materia”, in attesa di nuovi sbarchi e tragedie annunciate (per l’operazione militare Frontex nel Mediterraneo l’Europa ha appena stanziato 7,1 milioni).
Ne è una prova anche la riapertura del Cie milanese di via Corelli prevista in estate. La struttura concentrazionaria addirittura raddoppia: entro la fine dell’anno la prigione per stranieri che non hanno commesso alcun reato — aperta nel ’98 con la legge Turco-Napolitano e chiusa mesi fa perché distrutta da una rivolta — verrà affiancata da un Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo). Con buona pace dei “democratici” del Pd che si sono sbilanciati in chiave antirazzista contro una mostruosità non solo giuridica, come Emanuele Fiano qualche mese fa (“via Corelli va chiuso), Khalid Chauki qualche giorno fa (“mi opporrò e mi farò sentire”) e l’assessore del Comune di Milano Pierfrancesco Majorino (“un’occasione persa”).
La nuova prigione per stranieri da 140 posti verrà gestita dalla società Gepsa di proprietà del colosso francese Gdf Suez, un’azienda leader nel settore carcerario, “uno dei partner principali dell’amministrazione penitenziaria francese”. Un esperimento, il primo passo verso la privatizzazione delle carceri. Gepsa si è aggiudicata l’appalto al ribasso per via Corelli (40 euro al giorno per detenuto), cifra che aveva scoraggiato la Croce Rossa dopo sedici anni di gestione impossibile e contestata, tra rivolte, pestaggi, violenze e tentativi di fuga e suicidio.
Via Corelli, come gli altri Cie sparsi per l’Italia (quasi tutti chiusi o in ristrutturazione), è la prova di un fallimento generale che coinvolge anche chi non ha più avuto la forza o la voglia di battersi contro un simbolo piuttosto ingombrante dell’ingiustizia che domina il mondo, perché muri e celle sono qui, nelle nostre città. Il Cie è inutile, non funziona, è anti economico, e la sua stessa esistenza è una violazione dei diritti umani, senza bisogno che vi si commettano violenze.
A Milano però non c’è aria di rivolta, anche se qualcosa si sta muovendo, non fosse altro che per una questione di toni. Inusuali, per esempio, quelli di Cgil-Cisl-Uil che protestano definendo il Cie “luogo di segregazione su base razziale che non può essere più tollerata”. I sindacati chiedono a prefettura e Comune di Milano che la struttura venga riconvertita in un centro di accoglienza per rifugiati, “perché si esca finalmente da una visione securitaria e punitiva del fenomeno dell’immigrazione per attivare, al di là delle belle dichiarazioni, politiche di integrazione e di accoglienza”. Luca Cusani, presidente del Naga, parla di “vuoto abissale della politica” e teme il peggio: “Dato che la ristrutturazione è avvenuta in seguito a una distruzione da parte dei detenuti e visto che le ribellioni sono state l’unica vera forma di contrasto ai Cie, immaginiamo che la nuova versione conterrà strumenti e dispositivi che tenteranno di neutralizzare ogni forma di rivolta attraverso meccanismi di sottomissione e costrizione”.
Via Corelli non è ancora aperto. Nei primi giorni di maggio, con una manifestazione ancora da preparare, alcune associazioni proveranno ad inaugurare una nuova stagione di resistenza antirazzista. Difficile. Ma tutti si augurano almeno che possa accadere con a fianco il Comune di Milano.
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