by redazione | 19 Aprile 2014 9:37
JUBA ANCORA una volta le Nazioni Unite hanno fallito nel loro compito di proteggere la popolazione civile inerme in una zona di guerra. Sotto gli occhi di caschi blu indiani e sudcoreani, all’interno del perimetro di una base Onu nella città di Bor in Sud Sudan, almeno una cinquantina di rifugiati delle campagne circostanti sono stati massacrati a colpi d’arma da fuoco e di granate. Le vittime sono Nuer, e gli aggressori Dinka. Un’altra soglia è stata varcata nella feroce guerra civile sudsudanese, un altro tabù è caduto, la bandiera azzurra dell’Onu non ha fermato gli assassini.
Da quando la guerra civile è scoppiata a metà dicembre nello “Stato più giovane del mondo” (è indipendente dal luglio 2011), migliaia di civili si sono riversati all’interno delle basi dell’Unmiss, la missione Onu in Sud Sudan. Dopo un’iniziale esitazione, i cancelli sono stati aperti. In totale, su un milione di profughi dentro e fuori i confini sudsudanesi (molti sono fuggiti in Uganda, Kenya ed Etiopia), circa 70mila sono attendati in condizioni
estremamente precarie sotto l’egida Unmiss. La situazione è aggravata dal fatto che ad eccezione di Juba, la capitale, le altre maggiori città — Bentiu, Malakal e Bor — sono passate più volte di mano tra governativi e ribelli, ogni volta con nuove stragi e saccheggi. Proprio la riconquista di Bentiu, capoluogo dello stato petrolifero di Unity, da parte dei ribelli Nuer, sarebbe all’origine dell’ultima strage. Questa è almeno la versione fornita dai portavoce governativi. Gli sfollati accampati nella base Unmiss di Bor hanno festeggiato l’evento, provocando la vendetta dei loro nemici. Circa cinquemila Dinka si sono accalcati ai cancelli della base, chiedendo a gran voce che i profughi venissero trasferiti altrove. I manifestanti, che ai caschi blu erano dapprima apparsi pacifici, hanno poi forzato il passaggio all’interno del perimetro protetto e hanno imbracciato le armi che avevano tenuto nascoste, dando il via alla carneficina prima che i soldati indiani e sudcoreani riuscissero ad abbozzare una qualsivoglia reazione.
La più grande tendopoli ospitata dall’Unmiss è quella di Juba, con circa 25mila sfollati, uomini donne e bambini, tutti Nuer. Vent’anni fa, in altre parti del mondo, l’Onu si rese responsabile di ignobili omissioni nel difendere la popolazione civile, col pretesto che questo non era il suo mandato. Da allora la sua politica è cambiata e oggi la Protection of Civilians è un articolo di fede (anche se, come è accaduto a Bor, manca la forza di farlo rispettare). L’ipocrisia però non è finita. I profughi sono stati accolti, ma è proibito dire che sono in un «campo», perché questo implicherebbe ben altri standard e garanzie di quelli in cui sopravvivono dallo scorso dicembre. I loro sono dunque ufficialmente “siti”, e non “campi”, affidati alle precarie cure di organizzazioni non governative. Ormai piccole città, sia pure di ricoveri di plastica e di tela, con svariate persone al metro quadro e le fogne a cielo aperto, piena di botteghe che vendono ricariche per i cellulari, alimentari, attrezzi, parrucchieri e sarti. Nessuno vuole più uscire perché la paura rimane altissima. Paura fin troppo giustificata, come dimostra l’attacco di giovedì a Bor.
L’ipocrisia non è soltanto questa. Per evi-
tare il ripetersi di assalti, la base Unmiss di Bor è stata posta adesso sotto la guardia di truppe governative. “Governativo”, però, è in Sud Sudan una parola sempre più vuota, specie quando si parla di forze armate, perché nelle settimane successive all’esplodere delle ostilità tra Dinka e Nuer l’esercito si è praticamente dissolto. In uniforme sono rimasti soltanto i soldati che appartengono all’etnia del presidente: la stessa che ha condotto l’attacco contro la base di Bor — e che adesso dovrebbe proteggerla.
Tutto questo accade mentre in una qualche saletta riservata ai piani alti del Palazzo di Vetro di New York, a porte rigorosamente chiuse, sono già in corso i negoziati per il rinnovo del mandato annuale dell’Unmiss. Si sa che il segretario generale Ban Ki-moon vorrebbe riorientarlo proprio rafforzando il compito di protezione dei civili: quella che a dicembre era sembrata una crisi passeggera è diventata un’emergenza umanitaria e una missione prioritaria, come dimostra la tragedia di Bor. Ma difficilmente il presidente sudsudanese Salva Kiir, che non perde occasione per accusare l’Onu di parzialità verso i suoi nemici (specie dopo che Ban aveva accusato entrambe le fazioni, dunque anche il governo, di crimini efferati contro la popolazione civile), accetterà che il mandato venga rafforzato. Intanto il Sud Sudan continua a sprofondare nel caos.
All’origine della guerra civile c’è la rivalità tra il presidente, che è un Dinka, e il suo vice (oggi destituito), che è Nuer. I morti non si contano, sono probabilmente nell’ordine della decina di migliaia. Ribelli e governativi si combattono nelle due principali zone petrolifere, nel nord del Paese, e per il controllo del corso del Nilo, principale arteria del Sud Sudan. Un cessate il fuoco negoziato in Etiopia in gennaio è rimasto lettera morta. Le armi sono dappertutto. L’enorme ondata di profughi alimenta la terza grande economia nazionale dopo il petrolio e la pastorizia: l’industria degli aiuti umanitari. Al momento, circa il dieci per cento della popolazione è attendata in campi di raccolta. Un record mondiale.
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