L’udienza per la scarcerazione slitta di 4 mesi, il detenuto muore

L’udienza per la scarcerazione slitta di 4 mesi, il detenuto muore

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GIARRE (Catania) — Affannato da un’asma che era diventata un rantolo continuo, pillole e spray in quantità, la notte si incollava a naso e bocca la maschera delle ventilazione forzata per annaspare l’ossigeno che all’alba del 25 aprile non è più bastato. Forse per un guasto all’apparecchio. Ed è morto così, nella sua cella del carcere di Giarre, Nicola D., 32 anni, alto un metro e cinquanta, 150 chili addosso, ufficialmente «cardiopatico sottoposto a ossigenoterapia». Soffocato senza che nessuno se ne accorgesse, per una beffa del destino a soli 5 giorni dall’udienza fissata in Tribunale per sancire l’incompatibilità della patologia col regime carcerario. Doveva andarci domani davanti al giudice di Sorveglianza. Ma doveva andarci già quattro mesi fa. Sarebbe stato il terzo tentativo, dopo le due precedenti udienze saltate a gennaio e a marzo perché la magistratura aveva preferito rinviare, dando la precedenza ad altro, senza tempo per questo povero diavolo adesso all’obitorio dell’ospedale Garibaldi di Catania, in attesa di autopsia.
È il nuovo clamoroso scandalo del pianeta carceri, consumato all’ombra dell’Etna, a venti chilometri da Catania, nello stesso carcere dove con un cappio alle sbarre quattro anni fa si impiccò un detenuto di 37 anni.
«Ma era stata da mesi la stessa amministrazione penitenziaria a sollecitare in questo caso l’incompatibilità fra malattia e detenzione», precisa il direttore generale del Dap, Roberto Piscitello, magistrato di lungo corso contro la mafia, a capo della gestione detenuti e dei provvedimenti sul carcere duro, il «41 bis». Sfronda così il campo da ogni responsabilità della sua amministrazione. Anche se l’inchiesta aperta dalla Procura di Catania dovrà accertare alcuni problemi legati al ventilatore meccanico che potrebbe essere andato in tilt.
«Esclusa la presenza in cella di una bombola di ossigeno», ripetono a Piscitello i funzionari del Dipartimento fra Catania e Palermo. Pur senza smentire le bordate del segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Donato Capece sulla scarsità di vigilanza: «Nel reparto custodia attenuata dove il detenuto si trovava, un solo agente controlla stabilmente da 80 a 90 reclusi».
Il destino ha voluto che la tragedia maturasse ad un soffio dalla possibile liberazione per motivi di salute, anche se il «fine pena» per i furti commessi restava fissato al 2019. Ma al Garibaldi il direttore del Dipartimento Emergenza Sergio Pintaudi non azzarda ipotesi definitive: «Potremmo solo dire che la detenzione può essere stata una concausa del decesso». Insiste invece Capece sull’indifferenza della macchina burocratica e giudiziaria: «Questa morte, ancorché dovuta a cause naturali, deve fare riflettere sulla drammaticità delle attuali condizioni penitenziarie. Qui pagano ormai persone disagiate, poveracci, prigionieri che probabilmente mai godranno di interessamenti istituzionali autorevoli per le loro condizioni di vita in cella…».
L’avvocato di Nicola D. ci ha provato e riprovato a convincere i magistrati ad accelerare la pratica per ottenere i domiciliari o il trasferimento in ospedale. Una battaglia persa. Senza nemmeno potere usufruire della spinta dell’ufficio regionale del Garante per i diritti dei detenuti, chiuso in Sicilia l’anno scorso dopo astiose polemiche sulla gestione affidata a uno degli amici politici più vicini a Marcello Dell’Utri, l’ex senatore forzista Salvo Fleres. Adesso è lui a passare al contrattacco per l’inattività di un ufficio mai più riaperto dal governatore Rosario Crocetta.
Felice Cavallaro


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