by redazione | 12 Aprile 2014 9:09
PALERMO — Forse tanti non ci hanno mai creduto, ma cercando di essere convincente spiegava di avere i libri pronti per il carcere, il pigiama ripiegato, acquietato con se stesso, deciso in caso di condanna a scegliere lui il carcere. «Busserò a Rebibbia, chissà che non incontro nell’ora d’aria Totò Cuffaro…», celiava un paio di anni fa Marcello Dell’Utri, il fondatore di Forza Italia indicato dai magistrati come mediatore tra mafia, politica e Berlusconi, in attesa della sentenza di Cassazione che poi rinviò il processo a una nuova Corte d’appello. Ma, anche allora, smentendo se stesso, sparì prima del verdetto. Ricomparve quando si capì che comunque non sarebbe andato dentro: «Ero in vacanza a Santo Domingo».
Stavolta, in vista della sentenza definitiva prevista in Cassazione per martedì, né alla «vacanza» né «a cure legate ai tre bypass coronarici» credono i magistrati nonostante un sms inviato al suo avvocato palermitano Giuseppe Di Peri: «Non scappo, mi sto curando». E la prima notizia che l’imputato condannato in appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa fosse «irreperibile» è stata subito spazzata via da un marchio impresso nei provvedimenti dei giudici che lo cercano con un mandato di cattura europeo: latitante. In parallelo è stato attivato anche l’Interpol per le ricerche negli altri Stati.
Una fuga che potrebbe avere riportato Dell’Utri a Santo Domingo dove ha acquistato una villa con i 30 milioni ricevuti da Berlusconi per la cessione di un’altra storica dimora sul lago di Como. Ma le prime notizie, sulla base di intercettazioni effettuate a novembre, ascoltando a Roma il fratello gemello del «latitante», Alberto Dell’Utri, lasciano ipotizzare che altre mete possibili per soggiorni protetti da amici influenti potrebbero essere il Libano o la Nuova Guinea. Un testimone assicura di averlo visto in business class su un aereo Parigi-Beirut. E anche in procura generale a Palermo confermano una segnalazione sulla capitale libanese.
Nell’intercettazione ambientale effettuata cinque mesi fa nel ristorante «Assunta Madre» di Roma, il fratello Alberto parla con un amico, Vincenzo Mancuso, di una possibile rotta verso la Guinea: «Un Paese che concede i passaporti diplomatici molto facilmente… bisogna accelerare i tempi». E Mancuso: «Perché Marcello non si fa nominare ambasciatore della Guinea?». Non manca un riferimento di Alberto «a un personaggio che ha sposato la figlia del presidente africano…». Poi: «Marcello ha cenato a Roma con un politico importante del Libano, che si candida presidente».
Le indagini hanno consentito infine a Dell’Utri di allontanarsi facendo leva — secondo le prime voci, smentite dalla Farnesina — su due passaporti diplomatici. Esplodono le polemiche politiche. Ironici i parlamentari del Movimento 5 Stelle che augurano «buona latitanza» e attaccano il ministro dell’Interno Alfano per i mancati controlli.
Dell’Utri conferma di aver lasciato l’Italia e precisa: «Non intendo sottrarmi al risultato processuale della prossima sentenza della Cassazione e trovandomi in condizioni di salute precaria, per cui tra l’altro ho subito qualche settimana fa un intervento di angioplastica, sto effettuando ulteriori esami». Poi aggiunge: «Apprendo della aberrante richiesta di preventiva custodia cautelare… Rimango in attesa fiduciosa del risultato che esprimerà la Massima Corte che ha già rilevato incongruenze e fumus nella prima sentenza di appello, annullandola…».
Dove sia ora è inutile chiedere al suo legale: «Lo sa soltanto lui». Com’è inutile rivolgersi alla signora Margherita, la storica segretaria della biblioteca di via Senato a Milano, sede della Fondazione presieduta dall’ex senatore: «Gli esami per il cuore? Finora in Italia. Per il resto, nulla da aggiungere. Spero di poterglielo passare fra una settimana ». Appunto, dopo la sentenza.
Intanto, dei due numeri ufficiali di Dell’Utri, uno è staccato e sull’altro echeggia la segreteria telefonica italiana. Anche se secondo la Direzione investigativa antimafia il 3 aprile era in Libano. Almeno così dicono le «celle» di uno dei telefonini.
Felice Cavallaro
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