L’inciviltà della cella

by redazione | 23 Aprile 2014 8:46

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La crisi pro­fonda e ine­so­ra­bile della misura deten­tiva, rispetto alla quale si richiede un supe­ra­mento netto e ine­qui­vo­ca­bile, tanto nei pre­sup­po­sti teo­rici quanto nelle moda­lità di esecuzione.
È quanto cer­ti­fi­cano con radi­cale con­vin­zione due magi­strati (Sil­via Cec­chi e Gio­vanna Di Rosa), un pro­fes­sore di filo­so­fia morale e bio­e­tica (Paolo Bonetti) e uno psi­co­logo e psi­co­te­ra­peuta sistemico-familiare (Mario Della Dora), nel denso e arti­co­lato volu­metto dedi­cato all’argomento: Sulla pena. Al di là del carcere (Libe­ri­li­bri, pp. 187, euro 16, intro­du­zione di Gio­vanni Fiandaca).
Ne par­liamo con Sil­via Cec­chi, magi­strato e sosti­tuto pro­cu­ra­tore presso la Pro­cura di Pesaro, autrice del sag­gio più ampio.
La pena car­ce­ra­ria si afferma come san­zione regina nel XIX secolo. Su quali pre­sup­po­sti e fondamenti?
Pur essendo sem­pre esi­stito il carcere come forma custodiale-cautelare (si pensi alla cella in cui Socrate con­versa dopo la con­danna a morte già pro­cla­mata, nel Fedone di Pla­tone), in attesa e per il tempo del pro­cesso il carcere come san­zione penale prin­ci­pale si afferma con il signi­fi­cato di una rispo­sta san­zio­na­to­ria meno dra­stica della pena capitale.

Già nel Set­te­cento il car­cere da luogo di rico­vero indif­fe­ren­ziato, pro­mi­scuo, accò­lita di tutti i reietti sociali (folli, vaga­bondi, men­di­canti, pro­sti­tute, donne vio­len­tate o ragazze-madri, stre­ghe, poveri, debi­tori, cri­mi­nali) si deli­nea come realtà fisica e ideale nel senso moderno del ter­mine, e cioè come strut­tura di pena, anche archi­tet­to­ni­ca­mente spe­cia­liz­zata. Vi è però un tratto di con­ti­nuità tra pena di morte (accom­pa­gnata o non da tor­tura) e carcere: la comune afflit­ti­vità che resta com­po­nente essen­ziale della pena car­ce­ra­ria fino ad oggi. A ben vedere anche la pena car­ce­ra­ria resta oggi fon­da­men­tal­mente una pena cor­po­rale.

Il carcere è il momento cul­mi­nante di un per­corso che ori­gina nella sto­ria indi­vi­duale e sociale. Qual è il peso delle disu­gua­glianze sociali, per esem­pio, nel mec­ca­ni­smo che con­duce alla pena detentiva?

Oggi la san­zione car­ce­ra­ria costi­tui­sce l’esito di un pro­cesso pre­sie­duto in ogni sua fase dal prin­ci­pio di egua­glianza, che si tra­duce in una serie di isti­tuti garan­ti­stici di sicura effi­ca­cia ed effet­ti­vità: si tratta, come tutti sap­piamo, di una lunga con­qui­sta di civiltà giu­ri­dica, irre­ver­si­bile. Ciò non toglie che il peso delle pro­fonde dise­gua­glianze sociali con­ti­nui a ispi­rare, nella realtà extra­pro­ces­suale, poli­ti­che di repres­sione cri­mi­nale, e che possa influen­zare anche la realtà della pena come isti­tu­zione sociale, più che come isti­tu­zione giu­ri­dica. Sono però con­vinta che la sede giu­di­zia­ria rap­pre­senti oggi uno dei pre­sidi mag­giori e uno dei rimedi più effi­caci alle dise­gua­glianze sociali.

Altra cosa sono gli effetti indotti dalle diverse oppor­tu­nità di difesa tec­nica, dalla pro­pen­sione indi­vi­duale alla com­mis­sione di reati deter­mi­nati da indi­genza, dise­gua­glianza o da mar­gi­na­lità sociale. Non si tratta di giu­sti­zia discri­mi­na­to­ria, ma di riflessi di una realtà sociale dise­guale ed essa stessa discri­mi­na­to­ria. Anche per la magi­stra­tura rom­pere certe zolle dure è impresa molto ardua, e sem­pre sospetta di con­no­ta­zione ideo­lo­gica. Se poi vi sono com­po­nenti dell’apparato giu­di­zia­rio influen­za­bili a logi­che ille­cite esterne, si tratta di feno­meni (direi mino­ri­tari) di pato­lo­gia giu­di­zia­ria, e li ascri­ve­rei al mec­ca­ni­smo pro­ces­suale come tale.

Lei parla di un declino ormai segnato e ine­so­ra­bile della san­zione car­ce­ra­ria? Eppure le car­ceri scop­piano. Cosa intende dire?

Direi che vi è una diva­ri­ca­zione pro­fonda tra un sen­tire sociale ancora con­vin­ta­mente legato all’idea che la pena del car­cere sia neces­sa­ria e vada anzi resa più severa e più effet­tiva, e un orien­ta­mento, più dif­fuso tra giu­ri­sti e cit­ta­dini sen­si­bili al tema etico-giuridico della san­zione, che tende a dele­git­ti­mare la pena car­ce­ra­ria così come oggi pre­vi­sta per legge (pena unica per tutti i reati e coin­vol­gente la tota­lità della per­sona del reo). Tengo però a evi­den­ziare che l’orientamento cri­tico sulla pena car­ce­ra­ria sta facendo brec­cia sul piano legi­sla­tivo e che c’è aria di riforma sul tema, con un certo alli­nea­mento anche ad altre legi­sla­zioni euro­pee ed extra-europee, senza alcun rischio per la sicu­rezza sociale e senza alcun aumento di cri­mi­na­lità, che è quanto il cit­ta­dino comune teme di più.

Lei sostiene che il diritto penale si con­cen­tra sol­tanto sul reo, men­tre la respon­sa­bi­lità penale pre­sup­pone una rela­zione stretta con la vit­tima. In che senso?

Un diritto penale-processuale «impu­ta­to­cen­trico» ha senso natu­ral­mente di fronte a una pena afflit­tiva ed estrema e non potrebbe essere altri­menti. Una «rota­zione» del sistema san­zio­na­to­rio verso aspetti più ripa­ra­tori, impe­gna­tivi, respon­sa­bi­liz­zanti e rie­du­ca­tivi lasce­rebbe rie­mer­gere invece la com­po­nente oggi meno visi­bile della respon­sa­bi­lità penale, quella che io chiamo la respon­sa­bi­lità «da rela­zione», e con essa la per­sona della vit­tima, la sua realtà con­creta. In que­sta pro­spet­tiva, oltre a un mag­gior ruolo pro­ces­suale, le esi­genze della vit­tima dovranno essere prese seria­mente in carico dallo Stato. Ciò non signi­fica «auto­ma­ti­ca­mente» che la rispo­sta san­zio­na­to­ria riser­vata al reo e le esi­genze delle vit­time deb­bano avere neces­sa­ria­mente aspetti in comune o punti di incontro.

Se la san­zione car­ce­ra­ria è inu­tile e per­sino dan­nosa, quali altri sistemi di puni­zione delle infra­zioni penali pos­sono effet­ti­va­mente favo­rire la «sod­di­sfa­zione» della vit­tima e il recu­pero del col­pe­vole alla vita sociale?

La san­zione car­ce­ra­ria è nor­mal­mente tanto afflit­tiva quanto vuota. Inol­tre nel nostro sistema è anche spesso inef­fet­tiva. Non mi rife­ri­sco natu­ral­mente ai reati impli­canti seria peri­co­lo­sità sociale, ma alla stra­grande mag­gio­ranza dei reati in cui non pos­siamo ope­rare alcuna equi­va­lenza tra per­sona del reo ed atto com­piuto. La respon­sa­bi­lità per l’atto ille­cito com­piuto non auto­rizza e non legit­tima alcuna repres­sione tota­liz­zante e ple­na­ria sull’intera per­sona del reo, non giu­sti­fica alcuno scam­bio «meto­ni­mico» tra atto e per­sona. Oggi la pena car­ce­ra­ria è pre­vi­sta anche per reati col­posi e cioè, per defi­ni­zione, com­messi con­tro l’intenzione. La pena car­ce­ra­ria (che diviene pena afflit­tiva anche per parenti, coniugi o figli o geni­tori che siano) disvela così un’arcaica radice reli­giosa e mora­li­stica incom­pa­ti­bile con la civiltà giu­ri­dica attuale.

Neces­sa­rie saranno allora san­zioni penali che io ritengo assai più effi­caci e deter­renti, e soprat­tutto effet­tive e inde­ro­ga­bili: san­zioni a natura patri­mo­niale, inter­dit­tive, impe­gna­tive e cioè a con­te­nuto prio­ri­ta­ria­mente rela­zio­nale, in omo­lo­gia e in armo­nia con una costru­zione della respon­sa­bi­lità penale in senso relazionale.

L’essenziale è che la san­zione penale «tra­scenda» il cri­mine com­messo (nel senso in cui De Mar­tino parla di tra­scen­di­mento e ritua­liz­za­zione come moda­lità di supe­ra­mento del «lutto» , e ciò vale anche per il cri­mine), che si ponga cioè su un piano qua­li­ta­ti­va­mente, eti­ca­mente e fina­li­sti­ca­mente diverso, e che non attinga alle stesse pul­sioni cui attinge il delitto, come ha acu­ta­mente affer­mato il giu­ri­sta Franco Cordero.

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