L’impoverimento europeo che fa paura
Commentando il crollo della fiducia nell’Unione europea (nel 2013 al 28% tra i cittadini italiani) Ilvo Diamanti sottolineava su La Repubblica di lunedì come l’attaccamento all’Europa sopravvivesse essenzialmente per la paura di quel che ci potrebbe accadere rimanendone fuori. Non è un motivo spregevole e non si discosta poi tanto dalla ragione che ispirò il pensiero dell’unità europea alla fine della seconda guerra mondiale: la paura che gli orrori vissuti dal vecchio continente potessero ripetersi ancora una volta. Converrà allora riproporre insistentemente all’opinione pubblica europea qualcosa di cui spaventarsi, qualcosa di realmente minaccioso.
Per il primo maggio i neonazisti tedeschi annunciano marce in numerose città (Rostock, Dortmund, Duisburg, Essen , Kaiserlautern, Plauen e Berlino). Di per sé il fatto non desta eccessiva preoccupazione essendo la Repubblica federale un paese fortemente vaccinato contro l’estremismo di destra. Ma è l’eco delle parole d’ordine che preparano l’evento, le assonanze, le parentele fraseologiche tra gli slogan dei nazionalisti germanici e le esternazioni di alcune formazioni politiche europee numericamente consistenti e che si richiamano non al fascismo ma alla democrazia, che dovrebbe suscitare spavento. «Il nostro popolo prima di tutto», «lavoro e giusto salario per tutti i tedeschi», «Ogni trasformazione comincia da te, se sei insoddisfatto, se vorresti cambiare qualcosa e non vuoi vigliaccamente arrenderti al destino, devi fare qualcosa. Noi facciamo qualcosa! Noi ci prendiamo cura!» Questa preminenza dell’elemento nazionale, l’ostilità verso gli stranieri, il richiamo a una partecipazione in prima persona che è in realtà affidamento a un capo, attraversano con maggiore o minore intensità, più o meno apertamente esibite, anche le prime miserevoli battute della campagna elettorale dell’euroscetticismo italiano. Dal manifesto di un candidato berlusconiano il quale promette «in Europa, prima l’Italia» ai «pugni sul tavolo» dei 5 Stelle che dipingono la politica europea come una rissa da osteria.
Una partita nella quale il proprio paese deve imporsi sbraitando sugli altri. Laddove non è un movimento europeo, ma una singola forza politica nazionale ad avanzare la pretesa di «rivoltare l’Europa come un calzino». Mettiamoci poi la rivalutazione presidenziale del militarismo e la scelta dei due marò trattenuti in partibus infidelium, come simbolo dell’orgoglio nazionale, per completare un quadro davvero sinistro.
D’altro canto, i difensori dell’attuale architettura comunitaria e delle sue regole competitive, insistendo sull’intangibilità di politiche i cui effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che alimentare queste pulsioni. Lo spauracchio che agitano per contrastarle (fuori dall’Europa o mutandone incisivamente le regole si starebbe ancora peggio di così) sbiadisce ogni giorno di più, a vantaggio delle sirene nazionaliste, che possono avvalersi di evidenti dati di realtà.
Coerentemente con una Unione rimasta in larga misura ostaggio degli stati-nazione, le elezioni per il parlamento di Strasburgo si giocano tutte sulla misurazione dei rapporti di forze interni ai singoli paesi.
Come spesso accade, è ancora una volta Beppe Grillo a mettere in chiaro senza troppi giri di parole l’assoluta irrilevanza della dimensione sovranazionale: «Se vinco le europee salgo al Quirinale e pretendo l’incarico». Il pugno vero, insomma, lo si batte sul tavolo di Giorgio Napolitano.
Ma se è il più sanguignamente esplicito, il capo del Movimento 5 stelle non è certo l’unico a pensare la scadenza elettorale esclusivamente come una prova di forza interna. Per tutti si tratta di definire equilibri tra partiti e nei partiti finalizzati al governo del paese. L’Europa scompare dalla campagna elettorale, (con l’eccezione della Lega che vi insiste quotidianamente, avversandola con crescente veemenza demagogica) se non per qualche richiamo di circostanza, il più delle volte di stampo propagandistico. La lista Tsipras, e non solo per essersi schierata sotto la bandiera di un politico greco, avrebbe dovuto essere la formazione più capace di un discorso politico che guardi realmente all’Europa, ricostruendone il senso. E collegandolo a una urgente necessità di cambiamento. Ma procede sottotono, con esagerata pacatezza, non spaventa, come dovrebbe, gli elettori di fronte alle conseguenze della marea nazionalista che le politiche di austerità vanno costantemente rigonfiando. Non ricorda, con sufficiente insistenza, che la battaglia per l’Europa politica è in primo luogo una battaglia contro tutti i fascismi.
Intendiamoci, non si tratta del ritorno di quelli storici, e nemmeno di generalizzati scenari di guerra (almeno per il momento), ma di quella «mentalità autoritaria», di quegli egoismi nazionali, regressivi e xenofobi che compongono il volto «postmoderno» di un «fascismo» movimentista e partecipativo». Il solo che sarebbe in grado di dissodare e configurare lo spazio nazionale, con buona pace dell’euroscetticismo di sinistra e delle sue tenaci illusioni. Non si tratta di dedicarsi a un gratuito esercizio di allarmismo ma di proporre un’equa considerazione dei fatti. I timori «europeisti» cui si riferisce Diamanti, riguardano essenzialmente le conseguenze economiche di un eventuale abbandono dell’Unione, ossia quell’impoverimento generalizzato che le oligarchie europee minacciano nel momento stesso in cui ne impongono la propria versione pilotata. Non invece quelle conseguenze politiche postdemocratiche, ormai visibili ad occhio nudo, con le quali sarebbero ben disposte ad accordarsi.
Se è anche e soprattutto quest’ultima paura a poterci mantenere insieme, teniamocela senza vergognarcene. Si tratta in fondo di un’ottima ragione.
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