by redazione | 3 Aprile 2014 9:15
Silvio Berlusconi arriva al Quirinale verso le 18, per un incontro improvviso, imprevisto e tenuto fino all’ultimo segreto. E’ stato lui a chiedere il colloquio, ufficialmente solo per fare il punto sull’accidentato percorso delle riforme istituzionali e di quella elettorale, ma in realtà con in agenda un argomento per lui ben più urgente: la condanna che diventerà esecutiva tra una settimana.
L’ex cavaliere non accenna a relazioni dirette tra il sostegno al percorso riformatore e la sua sorte personale. Non ce n’è bisogno. Il nesso campeggia sullo sfondo senza bisogno che venga apertamente evocato. Ma ancora una volta Napolitano non offre sponde. La giustizia segue il suo corso e il presidente della Repubblica non ha e non può avere in materia alcuna voce in capitolo. Di fatto, il condannato torna a palazzo Grazioli dopo aver subito l’ennesima sconfitta.
Resta da vedere quali conseguenze avrà l’ennesimo, e inevitabile, no del Colle sulle sue scelte politiche. Non lo si capirà oggi e probabilmente neppure subito dopo il 10 aprile. Neppure Berlusconi può permettersi di far saltare per la seconda volta un accordo in nome delle sue vicende private. Ma del resto non c’è fretta. Anche se ieri il senatore Pd Marcucci, uno dei pochi renziani presenti a palazzo Madama, ha annunciato a nome dell’ufficio di presidenza del suo gruppo che la legge sarà approvata entro il 25 maggio, anche se la ministra Boschi garantisce che la prima lettura della legge di riforma costituzionale sarà portata a termine per la stessa data, tutto, ma proprio tutto, lascia pensare il contrario. Prima delle elezioni europee, salvo miracoli, non ci sarà nessun voto, né sulla riforma del Senato e del Titolo V né su quella elettorale. Solo quando un quadro politico oggi incerto sarà stato illuminato dal responso delle urne, ciascuno prenderà la propria decisione, e la più spinosa toccherà proprio all’Interdetto di Arcore.
Ufficialmente, i senatori azzurri affermano di non voler votare il ddl così com’è. Il capogruppo Romani lo ha detto in un’intervista all’Huffington Post lunedì. «Voterete questo progetto di riforma?», «Assolutamente no». La realtà, però, è molto meno netta. Berlusconi non vuole passare per bastione del fronte conservatore, e sa bene che il rischio è forte, tanto più con in ballo una questione di vastissima popolarità come la cancellazione del Senato. Capita però che chieda correzioni come l’elettività di una parte del Senato riformato e la contestuale diminuzione del numero dei deputati che sono, se non proprio uguali, molto simili a quelle che invocano i dissidenti del Pd. Oggi Chiti e altri 22 senatori presenteranno un ddl alternativo. Il gruppo misto sarà sulla stessa linea o su una posizione affine. Così, probabilmente anche i gruppi minori della maggioranza, inclusa una parte dell’Ncd. Ma soprattutto su questa proposta potrebbe saldarsi un fronte con i grillini, e allora il guaio, da molto grosso, diventerebbe irrecuperabile.
Ma la scelta di Berlusconi, e poi quella di Renzi, non dipenderà da questa o quella virgola nella riforma istituzionale, o dall’elezione diretta di qualche decina di senatori. Deriverà dai rapporti di forza delineati dalle elezioni di maggio. Se la lista di Fi, certamente col nome Berlusconi bello chiaro nel simbolo, forse con Barbara candidata per assicurare la successione, non crollerà e se i gruppi minori del centrodestra, a partire da quello di Alfano, saranno costretti dall’esiguo bottino a tornare in ginocchio ad Arcore, allora l’ex cavaliere potrebbe davvero mettere Renzi di fronte all’aut aut. O una chiara e completa alleanza di governo, oppure la bocciatura della riforma con conseguenti elezioni a breve, col consultellum. Cioè con una legge che garantirebbe a Berlusconi sia la presenza nel prossimo governo sia un potere condizionante sulle riforme.
Renzi a sua volta deciderà il da farsi sulla base di quanta speranza di un esito plebiscitario nelle eventuali elezioni politiche autorizzerà il risultato di quelle europee. Entrambi giureranno che si tratta solo di riforme, ma le riforme, ancora una volta, in quel che accadrà nei prossimi mesi c’entrano ben poco.
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