Le incongruenze del Def nascondono scelte politiche

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Ritmi di cre­scita del Pil reale, da qui al 2018, a cui non era­vamo più abi­tuati dagli anni ’90 (1,5% medio annuo). Tassi di incre­mento delle espor­ta­zioni (4,2%), delle impor­ta­zioni (4,0%) e degli inve­sti­menti (3,2%) mai visti, nem­meno prima della crisi. Con­sumi pri­vati che ripar­tono (1,1%) e conti pub­blici in ordine (inde­bi­ta­mento netto strut­tu­rale pari a zero nel 2016). Que­sti i prin­ci­pali tratti posi­tivi, ine­diti, del qua­dro macroe­co­no­mico deli­neato nel Docu­mento di eco­no­mia e finanza 2014. Eppure non basta.
Innanzi tutto, non bastano quelle cifre a giu­sti­fi­care le nume­rose incon­gruenze sta­ti­sti­che, che deter­mi­nano quanto meno dubbi in rea­li­smo. Le pre­vi­sioni di cre­scita per il 2014 e il 2015 sono più con­te­nute di quelle che il governo Letta aveva ripor­tato nel Draft Bud­ge­tary Plan di otto­bre 2013 ma, nono­stante ciò, non tro­vano riscon­tro nella mag­gior parte delle pre­vi­sioni più accre­di­tate a livello inter­na­zio­nale (ripor­tate anche nel Def). Dal 2016 al 2018 le stime del Governo Renzi diven­tano per­sino più ambi­ziose, e altret­tanto ingiu­sti­fi­cate. La ripresa nell’intero arco tem­po­rale di rife­ri­mento del Def viene affi­data ancora una volta al mer­cato. Con espressa descri­zione dei diversi con­tri­buti alla cre­scita viene sti­mato un mag­giore impatto posi­tivo sul Pil delle cosid­dette riforme strut­tu­rali pre­vi­ste nel Pnr e, in par­ti­co­lare, delle sem­pli­fi­ca­zioni ammi­ni­stra­tive, delle libe­ra­liz­za­zioni e dell’ulteriore dere­go­la­zione del mer­cato del lavoro, rispetto a quello della ridu­zione delle impo­ste al lavoro e alle imprese (in verità, uni­che misure a soste­gno della domanda effet­tiva). Come se non bastasse, inol­tre, i mol­ti­pli­ca­tori fiscali (nega­tivi) uti­liz­zati per cal­co­lare l’impatto del con­so­li­da­mento fiscale (soprat­tutto la ridu­zione della spesa pub­blica) appa­iono deci­sa­mente sot­to­sti­mati, oltre che incoe­renti nel con­fronto con quelli scelti per le misure posi­tive. Matu­rare un avanzo pri­ma­rio del 5% nel 2018 (circa 79,4 miliardi di euro cor­renti) signi­fica ine­vi­ta­bil­mente com­pri­mere la domanda effet­tiva, qua­lun­que sia il mol­ti­pli­ca­tore di rife­ri­mento.
E ancora. Non basta l’attribuzione ideo­lo­gica al pen­siero (unico) libe­ri­sta per inter­pre­tare i mol­te­plici errori di valu­ta­zione politico-economica. Tra­scu­rando per un momento la plau­si­bi­lità delle simu­la­zioni eco­no­me­tri­che e delle simu­la­zioni d’impatto delle diverse misure pre­vi­ste dal governo nel Def, la cor­nice teo­rica a cui si affida la ripresa resta tutta den­tro una logica mer­can­ti­li­sta, fon­data ancora una volta su auste­rità, sva­lu­ta­zione com­pe­ti­tiva del lavoro, dele­ve­ra­ging e con­te­ni­mento dell’inflazione (da domanda). E già solo per que­sto non può fun­zio­nare. Ormai, cin­que anni di rile­va­zioni (e di pre­vi­sioni sba­gliate da parte di governi nazio­nali e isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali) con­fer­mano che il rigore dei conti e la ricerca di fidu­cia nei mer­cati non bastano a ritro­vare la ripresa. Non si può con­tare sul ritorno di una favo­re­vole con­giun­tura inter­na­zio­nale se non si risol­vono le cause alla radice della crisi e degli squi­li­bri strut­tu­rali dell’economia mon­diale che hanno gene­rato i vuoti di domanda glo­bale. È per­sino suf­fi­ciente osser­vare i soli indi­ca­tori dello sco­re­board (ripor­tato nel Pnr) usato dalla Com­mis­sione euro­pea per valu­tare gli squi­li­bri macroe­co­no­mici degli Stati mem­bri per com­pren­dere imme­dia­ta­mente l’origine della crisi e l’inefficacia delle poli­ti­che euro­pee per­se­guite si qui.
Anche nella migliore delle ipo­tesi, dun­que, in Ita­lia uno shock della domanda interna e la ripresa delle espor­ta­zioni non può essere, di per sé, suf­fi­ciente a uscire dalla crisi. Basti ricor­dare che il tasso di disoc­cu­pa­zione pre­vi­sto per il 2018 è l’11%, men­tre nel 2007 era il 6,1%. Di certo, poi, non si può pen­sare di scom­met­tere di aggan­ciare una qual­siasi ripresa del com­mer­cio inter­na­zio­nale – sem­pre ancora tutta da dimo­strare – senza aver con­ver­tito, riqua­li­fi­cato e inno­vato il tes­suto eco­no­mico e pro­dut­tivo del nostro Paese. Tut­ta­via, nel Def non è pre­sente alcun piano di inve­sti­menti che innalzi il con­te­nuto tec­no­lo­gico e di cono­scenza del sistema di imprese ita­liane, pub­bli­che e pri­vate. Così come non è pro­gram­mata nes­suna distra­zione di risorse in dire­zione di mag­giori fondi a soste­gno dell’innovazione e della ricerca. Non c’è nes­suna simi­li­tu­dine con pro­grammi di crea­zione diretta di lavoro di roo­se­vel­tiana memo­ria in fun­zione dei beni comuni, dei beni sociali o dei beni ambien­tali. Non c’è più trac­cia del primo Jobs Act annun­ciato lo scorso gen­naio, in cui una tenue evo­ca­zione del piano per il lavoro di Obama, in rife­ri­mento agli inve­sti­menti pub­blici in inno­va­zione, green eco­nomy, infra­strut­ture mate­riali e imma­te­riali, reti ener­ge­ti­che, edi­li­zia soste­ni­bile. Nes­suna poli­tica indu­striale. Anzi, il ruolo eco­no­mico dello Stato è espli­ci­ta­mente e deli­be­ra­ta­mente con­di­zio­nato all’auspicato avan­za­mento del mer­cato, all’inutile ricerca della con­cor­renza, all’attrazione dei capi­tali pri­vati e alla fidu­cia della finanza inter­na­zio­nale. La riforma delle isti­tu­zioni rien­tra in que­sta logica; tra l’altro, non molto diversa da Desti­na­zione Ita­lia (non a caso, prov­ve­di­mento ripor­tato nel Pnr). Un’altra evi­dente trac­cia della scelta di com­pe­tere sui costi si trova nella mode­sta pro­ie­zione del tasso medio annuo di varia­zione della pro­dut­ti­vità, nella ridu­zione del Costo del lavoro per unità di pro­dotto (il fami­ge­rato Clup) e nel pro­gram­mato con­te­ni­mento dell’inflazione, mal­grado i nume­rosi richiami inter­na­zio­nali sul rischio di defla­zione e sulle ovvie con­se­guenze sul debito pub­blico e sull’occupazione.
La verità è che tutte le incoe­renze tec­ni­che con­te­nute nel Def – molte più di quelle citate – non sono altro che la natu­rale con­se­guenza di deli­be­rate scelte poli­ti­che. Ma anche stando solo ai fatti (e ai testi) pos­siamo tran­quil­la­mente affer­mare che non è la svolta buona.
Di nuovo. Non sap­piamo se si tratti di tem­pi­smo poli­tico e, per­ciò, della scelta – tutta tat­tica – di accen­dere una ver­tenza euro­pea, o anche solo di aprire una trat­ta­tiva con la Com­mis­sione, solo dopo aver fatto “i com­piti a casa” e solo dopo le ele­zioni euro­pee. Quel che sap­piamo, però, è che il governo non ha usato i mar­gini di defi­cit spen­ding pos­si­bili, ben­ché abbia pre­vi­sto una «devia­zione tem­po­ra­nea del per­corso di avvi­ci­na­mento verso il pareg­gio di bilan­cio in ter­mini strut­tu­rali». Né tanto meno è stata avan­zata una diversa moda­lità (misure, moda­lità isti­tu­zio­nali, stru­menti, mol­ti­pli­ca­tori, para­me­tri, ecc.) di rag­giun­gi­mento dei – pur sem­pre discu­ti­bili – obiet­tivi di risa­na­mento dei conti. A oggi, la rinun­cia all’obiettivo del recu­pero dell’occupazione pre-crisi e, più in gene­rale, all’obiettivo della piena e buona occu­pa­zione è tanto chiara quanto inac­cet­ta­bile. Un pro­gramma di governo dell’Italia, come quello defi­nito dal Patto di sta­bi­lità e dal Piano nazio­nale di riforme, deve essere più ambizioso.



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