by redazione | 22 Aprile 2014 9:55
Capitali cercasi per evitare il crollo dell’ Ilva. Il piano industriale prevede un fabbisogno di oltre 4 miliardi per affrontare gli investimenti necessari per il risanamento degli impianti e la gestione industriale. Questo significa che occorre un aumento di capitale consistente, nel complesso non meno di 1 miliardo e, più probabilmente, 1 miliardo e mezzo. Una disponibilità analoga è stata chiesta alle banche creditrici, mentre il resto verrà generato dalla stessa Ilva. Gli istituti bancari più esposti sono Intesa Sanpaolo, Unicredit e Banco Popolare, che hanno già fatto sapere di condizionare ogni disponibilità alla ricapitalizzazione della società. Insomma, il passaggio preliminare è che ci siano azionisti disposti a metterci capitali.
Di sicuro la liquidità nelle casse dell’Ilva si è dissolta. Una stretta simile a quella che si è delineata per Alitalia nel settembre scorso e che è stata preliminare alla precipitazione della crisi, peraltro ancora in pieno corso. Fonti vicine al commissario straordinario Enrico Bondi, che preferisce evitare dichiarazioni, danno indicazioni che puntano a essere tranquillizzanti: i soldi per pagare gli stipendi ci sono e, anzi, il problema non si pone. Il momento, tuttavia, è cruciale, seguito minuto per minuto anche dal governo perché, come spiega l’economista Claudio De Vincenti, il viceministro Pd dello Sviluppo economico che segue la partita, «l’Ilva è una realtà industriale d’importanza fondamentale, strategica per l’intera economia italiana».
Bondi ha pressoché ultimato il piano industriale, che segue quello ambientale approvato a metà marzo dal Consiglio dei ministri ed è stato presentato alle banche creditrici. A loro volta le banche hanno affidato l’esame delle carte ai consulenti della Roland Berger, incaricati di verificarne la sostenibilità. La versione definitiva del piano dovrà poi essere sottoposta agli azionisti, cioè alla famiglia Riva, a cui è stata tolta la gestione. In prima battuta Bondi era stato scelto dai Riva come amministratore delegato. Successivamente, quando il gruppo è stato commissariato, ha cambiato ruolo. Oggi il rapporto fiduciario risulta incrinato e, nei fatti, inesistente. Non solo. Bondi ha avviato presso il Tribunale di Milano una richiesta di risarcimento nei confronti dei Riva per poco meno di mezzo miliardo, con l’accusa di avere trasferito soldi dalle casse della società a quelle della famiglia a partire dal 1995.
I Riva sono una realtà articolata. I capostipiti, entrambi quasi novantenni, sono Emilio e Adriano (che però non aveva incarichi in azienda), con sei eredi, tutti erano impegnati in Ilva o lo sono in altre società dell’acciaio che non fanno parte del gruppo. L’orientamento che prevale ritiene Bondi responsabile di una gestione d’emergenza, che ha applicato all’Ilva lo stesso metodo seguito quando era stato chiamato ad assumere la guida di Montedison e Parmalat, senza la capacità di fare scelte industriali specifiche e adeguate. In più l’età avanzata di Emilio, che rappresentava il collante dell’intera famiglia, ha determinato una sorta di diaspora, con orientamenti diversi su come procedere. Alcuni sono orientati a trattare l’uscita di scena mentre altri, se ci sono le condizioni, vorrebbero restare azionisti e fare la loro parte. Difficile prevedere quale sarà la scelta finale.
Una possibilità è che l’aumento di capitale possa essere realizzato grazie all’intervento di azionisti terzi. Una multinazionale, la ArcelorMittal, ha fatto sapere di seguire con interesse la vicenda. Pubblica, al contrario, è la disponibilità di Antonio Marcegaglia a far parte di una cordata. Va ricordato, in proposito, che proprio il gruppo Marcegaglia, insieme con Acelor-Mittal e Arvedi, aveva presentato una offerta per le Acciaierie di Terni. Altra alternativa possibile è che Bondi possa utilizzare i soldi sequestrati alla famiglia per reati valutari e fiscali dal pool dei magistrati del Tribunale di Milano coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Greco.
La crisi dell’Ilva risulta evidente considerando l’andamento dei ricavi, precipitati a 3,8 miliardi di euro, oltre il 30 per cento in meno rispetto all’anno precedente. La scelta del commissario è stata di procedere alla vendita del magazzino, che custodiva quantità di prodotti rilevanti. Ora però lo stock è sceso a livelli minimi e per produzioni adeguate occorrono soldi. Tanti soldi. Anche per questo è necessario l’aumento di capitale. In tempi rapidi. Il rischio è che l’ultimo, importante pezzo dell’industria manifatturiera di base italiana finisca per sparire.
Fabio Tamburini
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