by redazione | 8 Aprile 2014 11:29
«Non insistere, non posso farti entrare. Perché? Cosa vuoi che ti dica? Si sa che le camere sono senza luce». E allora facciamolo sapere al mondo: nella Best House Rom di via Visso, a Roma, gli zingari temporaneamente ospiti del Comune sono alloggiati in stanze senza finestre. L’unica luce è quella dei neon. Per questo la vita si svolge all’aria aperta, in un cortile circondato da mura di recinzione. «Viviamo come animali», dice a più riprese una donna che si avvicina quando scopre che un giornalista è venuto a bussare alla porta del centro. Altre annuiscono e confermano. Hanno voglia di parlare, ma non ho la possibilità di verificare quanto le loro parole si avvicinino al vero, di misurare se il tasso di teatralità sia direttamente o inversamente proporzionale a quello di realismo. Il guardiano, Cesare, un dipendente della cooperativa Inopera che gestisce il centro, ha ricevuto l’ordine di non far entrare i giornalisti e non se la sente di trasgredire. Ci invita, piuttosto, a fare un giro nelle diverse occupazioni che ci sono nei dintorni, dandoci indicazioni dettagliate e precisando che anche lui abita in una casa occupata.
Qual è il motivo di tanto mistero, se sul sito web della struttura si vedono foto di stanze pulite e gente al lavoro, e si legge che «la Best House Rom dispone di 52 camere da letto climatizzate ed arredate, di servizi igienico-sanitari sufficienti per il numero degli ospiti, di una mensa con capienza 130 posti, di lavanderia, un laboratorio ludico-didattico, un laboratorio di riciclo e di una piccola palestra»? Perché impedire l’accesso ai media in una struttura comunale, d’accoglienza e non detentiva? Cos’è che non si vuole mostrare? Cesare allarga le braccia: «Beh, si sa che le camere sono senza luce».
I diritti si conquistano “a spinta”
Sono venuto in questa periferia industriale della capitale per verificare le condizioni dei rom dopo il passaggio dall’era Alemanno a quella Marino e sapevo fin dalla partenza che difficilmente sarei riuscito a spuntarla. Avevo cercato di ottenere un regolare permesso per visitare la struttura accompagnato da un fotografo, ma dopo essere rimbalzato da quest’ultima alla sede della cooperativa, poi al Campidoglio fino a incocciare in un bel no alla richiesta d’ingresso da parte dell’assessorato alle Politiche sociali, mi sono deciso a presentarmi alla Best House Rom di persona.
La via Tiburtina di Roma, abbandonato il fermento di San Lorenzo e traversati i quartieri-formicaio oltre la nuovissima stazione dell’alta velocità, assume una veste industriale man mano che ci si spinge verso il Raccordo anulare. Sale giochi dai nomi americaneggianti, skyline newyorchesi e insegne pluricolorate aggiungono un tocco di squallido kitsch. Una di queste è interamente bruciata, e una macchia nero carbone si allarga come un neo sulla pelle di questa periferia raggrinzita. Le industrie hanno quasi tutte preso il volo, lasciando scheletri di edifici incustoditi. Via Visso è una stradina anonima e insignificante che dalla strada consolare si addentra tra le fabbrichette, ed è tutta un alternarsi di mura e cancelli. La Best House Rom si trova al numero 12. Era una stamperia, non l’unica da queste parti. Nell’età d’oro della carta quest’angolo di Roma era dedicato alla stampa di giornali, manifesti, locandine pubblicitarie. Nel ’68, non lontano da qui l’occupazione di una tipografia si prolungò per tredici mesi e provocò una mobilitazione senza precedenti che fu immortalata da Ugo Gregoretti nel film Apollon, una fabbrica occupata. La colonna sonora, registrata in presa diretta, sarà successivamente pubblicata dal manifesto. Oggi la storia un po’ si ripete, in maniera solo più anonima: un’altra stamperia dismessa è interamente occupata da un pugno di squatter. A farlo sapere ai passanti distratti ci pensa uno striscione. Lo slogan è figlio del disincanto nei confronti della politica istituzionale: «I diritti si conquistano a spinta».
Alle 11 del mattino il cortile della Best House Rom è affollato. Un gruppo di uomini gioca a carte, le donne fanno capannello tra loro e i ragazzi pure. Parlano volentieri, snocciolando un nutrito cahier de doléances: «Dentro è troppo buio, si vive meglio in carcere», «da quando siamo qui ci ammaliamo di continuo», le visite di parenti e amici non sono consentite e alle 11 di sera si chiudono i cancelli. Un’anziana signora con il capo velato sostiene di essere arrivata il giorno prima dalla Bosnia per incontrare figli e nipoti e di essere stata costretta a dormire all’addiaccio, davanti all’ingresso, perché per gli estranei non c’è posto all’interno. Chiedo a Cesare quanti sono gli ospiti in questo momento. Circa 350, mi risponde, rom bosniaci e rumeni che convivono senza particolari attriti. Fanno sei persone a camera, senza finestre e alla luce dei neon.
A denunciare le condizioni dei rom di via Visso era stata l’Associazione 21 luglio, lo scorso febbraio. Ma il grido d’allarme non era stato ascoltato da nessuno. I rom non fanno audience e neppure votano, in pochi sono disposti a sposarne la causa. Per un politico, il rischio è di perdere consenso piuttosto che attrarne. Ignazio Marino ha comunque voluto incontrare, una decina di giorni fa, alcuni esponenti dell’associazione. Al termine, il sindaco di Roma si è detto convinto che si sia trattato dell’inizio di «un ottimo cammino che faremo insieme per migliorare il volto della città». Eppure il dossier dell’organizzazione umanitaria è poco clemente nei suoi confronti. Elenca uno per uno i 17 sgomberi in un anno e accende i riflettori sulle condizioni di vita degli 8 mila rom e sinti che abitano il territorio romano, capro espiatorio per eccellenza del malessere sociale in quest’Italia d’inizio millennio. Tutto sommato si è trattato di sbaraccare piccoli insediamenti abusivi, poca roba rispetto a quanto accaduto con il suo predecessore. Ma i ricercatori dell’Associazione 21 luglio non si sono fermati alla superficie. Hanno chiesto una visura catastale dell’edificio che ospita la Best House Rom, scoprendo che la struttura risulta catalogata come C2, ossia un «locale utilizzato per il deposito di merci, locali di sgombero, sottotetti». «Ogni stanza ha una dimensione media di circa 12 metri quadri. Corridoi e stanze hanno un controsoffitto e sono privi di finestre. L’illuminazione sia notturna che diurna è garantita attraverso lampade al neon, mentre l’aerazione artificiale è assicurata da impianti di condizionamento. Oltre ai letti, la struttura non dispone di arredi», scrivono nel dossier, intitolato non a caso «Senza luce». Inoltre, calcolando 19 euro al giorno (più l’Iva al 4%) per i 320 rom ospitati al momento della loro visita, l’amministrazione spenderebbe 6323,20 euro al mese per ogni persona. Una cifra da far impallidire qualsiasi addetto alla spending review.
All’ombra del Sacro Gra
La Best House Rom ha un nome da bed and breakfast per turisti e chissà se chi ha pensato al suo nome ha riflettuto su quel che letteralmente stava a significare: la miglior sistemazione per i rom. Qui sono stati portati gli zingari provenienti da uno dei campi attrezzati previsti dal «Piano Nomadi» dell’ex sindaco Alemanno: quello di via della Cesarina, all’ombra di uno svincolo del Sacro Gra sulla via Nomentana. Sono stato anche lì. L’area è stata in gran parte ripulita, non ci sono più tracce della presenza degli zingari, fatta eccezione per alcuni disegni di bambini che nessuno ha staccato dalle mura di un edificio probabilmente adibito a scuola. Si trovano invece i resti del preesistente camping Nomentano. Su una lavagna all’aperto sono ben visibili i prezzi del bar, ancora in lire. Una scritta in inglese lo definisce come «il campeggio più vicino al centro storico della capitale», sebbene circondato su due lati dalla campagna, su un terzo da un edificio dell’Asl e incastrato sotto lo svincolo del Raccordo.
I rom della Best House dovrebbero tornare qui tra pochi mesi, appena il nuovo campo sarà ricostruito. Ma il loro ritorno non si annuncia semplice. L’Europa esige il superamento della politica dei campi-ghetto e Marino è finito nel mirino del Consiglio d’Europa, di Amnesty International e della stessa associazione 21 luglio, che chiedono la chiusura di tutti i campi e l’assegnazione di case popolari ai rom sgomberati. Inoltre, una striscia di plastica bianca e rossa circoscrive l’area sottoposta a sequestro penale, con la dicitura «zona contaminata da amianto – Eternit». Dunque da bonificare.
Davanti alla Best House incontro un uomo che ha tutta l’aria di essere uno dei leader della comunità. Dice di chiamarsi Lukas, sostiene che qui «si vive male, questo posto è una schifezza» e che i rom vogliono tornare a via della Cesarina, dove erano più liberi. Certo, le roulotte e le baracche erano fatiscenti – dice — però ora che costruiranno i bungalow ci si vivrà meglio che in passato. Ma non sarebbe preferibile trasferirsi in un’abitazione vera, gli chiedo? Lukas fa sfoggio di pragmatismo: «Vi immaginate cosa accadrebbe se uno zingaro togliesse la casa popolare a un italiano che sta in lista d’attesa da anni? Per noi è meglio andare in un campo attrezzato». Gli pare la soluzione più praticabile. Gli altri rom annuiscono.
I paria d’Europa
È un problema non da poco: di fronte al rischio di una guerra tra poveri, i diretti interessati paiono ritrarsi. I rom sanno bene di essere i paria d’Europa: perseguitati e discriminati in molti Paesi dell’Est, vittime di veri e propri pogrom durante le guerre balcaniche, dove molti di loro avevano casa prima di essere costretti a fuggire, sgomberati e discriminati un po’ ovunque. In Francia, prima ancora che facesse il giro del mondo il caso di Leonarda, una ragazzina di 15 anni fermata durante una gita scolastica ed espulsa verso il Kosovo, paese di origine dei genitori in cui lei non era mai stata, il ministro dell’Interno Manuel Valls, non ancora premier, aveva scandalizzato l’opinione pubblica di sinistra dicendo che «i rom in Francia non si possono integrare», facendo suo l’armamentario retorico della destra lepenista. Un mese fa è passato sotto silenzio l’ennesimo sgombero fai-da-te italiano. Nel quartiere napoletano di Poggioreale, in seguito a una vox populi di molestie su una sedicenne, una cinquantina di cittadini ha assaltato un campo nomadi, costringendo cinquecento rom a raccogliere le loro cose e andar via. E, tornando a Roma, ha fatto il giro d’Italia il cartello esposto da un panificio nel quartiere Tuscolano, che a più di uno ha ricordato la Germania nazista degli anni ‘30: «Vietato l’ingresso agli zingari». Il commerciante si è difeso sostenendo di aver agito non per razzismo bensì per esasperazione, mettendo il dito nella piaga. Come evitare che un malcontento diffuso tracimi in xenofobia senza mezzi termini, e che quest’ultima finisca per essere raccolta da una forza politica e trasformata in razzismo di Stato? In che modo impedire che si risvegli una seconda volta il mostro che dorme in fondo alle coscienze europee, che la storia si ripeta in forme inedite e non in farsa?
Chiamo il Segretariato generale di Amnesty International a Londra. Sanno bene che in questo momento si trovano a remare controcorrente rispetto all’ondata di xenofobia e securitarismo che investe il continente e si attrezzano a una campagna «culturale» di lungo respiro. Preoccupati dalla situazione romana, il 14 febbraio scorso hanno inviato una lettera al sindaco Marino e si dicono «sconcertati» per la mancata risposta. L’organizzazione aveva chiesto spiegazioni perché intimorita, oltre che dagli sgomberi forzati e dalla mancata chiusura dei campi fatti costruire da Alemanno oltre il Raccordo Anulare, dalla mancata abrogazione di una circolare dell’ex sindaco con la croce celtica al collo, risalente al 18 gennaio 2013, che retrocede i rom rispetto agli italiani nell’assegnazione delle case popolari. In buona sostanza, il provvedimento non riconosce a chi vive nei campi attrezzati lo stato di disagio abitativo. Ma non è che prima le cose andassero meglio. Nella capitale il diritto alla casa per un rom è semplicemente negato: su 50 mila assegnatari di un appartamento dell’Ater, appena lo 0,02 è di provenienza gitana. Per verificare di persona la situazione il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks alla metà di marzo si è presentato a Roma. Nei giorni scorsi è arrivato pure John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International. In un convegno organizzato per la giornata internazionale dei rom ha chiesto al sindaco di «fare chiarezza su come intenda impiegare i fondi recentemente messi a disposizione dalla Regione Lazio per la cosiddetta emergenza abitativa». Ma finora non si è mosso nulla. Eppure, ricordano alla sede romana di Amnesty, «a ottobre Marino si era impegnato a ritirare le misure discriminatorie nei confronti dei rom residenti nei campi».
Il nocciolo della questione è tutto lì: il nuovo sindaco si trova a ereditare una situazione creata dal suo predecessore e le organizzazioni per i diritti umani si aspettano da lui, un “liberal” attento ai diritti civili, almeno che smonti il «Piano Nomadi» della giunta di centrodestra. Anche la stamperia senza finestre di via Visso è figlia dell’era Alemanno. Fu utilizzata per dare un tetto ai senza dimora durante l’«emergenza freddo» di due anni fa, quando a Roma nevicò dopo 25 anni, le misure di prevenzione si rivelarono inesistenti, la città si bloccò e Alemanno rimediò una figuraccia che fece il giro del mondo. Allora la neve si sciolse al primo raggio di sole, e fu l’annuncio di una primavera democratica per la capitale di un paese sull’orlo di una crisi di nervi. Oggi è già primavera, ma la stagione appare molto diversa.
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