I rom senza luce della Tiburtina

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«Non insi­stere, non posso farti entrare. Per­ché? Cosa vuoi che ti dica? Si sa che le camere sono senza luce». E allora fac­cia­molo sapere al mondo: nella Best House Rom di via Visso, a Roma, gli zin­gari tem­po­ra­nea­mente ospiti del Comune sono allog­giati in stanze senza fine­stre. L’unica luce è quella dei neon. Per que­sto la vita si svolge all’aria aperta, in un cor­tile cir­con­dato da mura di recin­zione. «Viviamo come ani­mali», dice a più riprese una donna che si avvi­cina quando sco­pre che un gior­na­li­sta è venuto a bus­sare alla porta del cen­tro. Altre annui­scono e con­fer­mano. Hanno voglia di par­lare, ma non ho la pos­si­bi­lità di veri­fi­care quanto le loro parole si avvi­ci­nino al vero, di misu­rare se il tasso di tea­tra­lità sia diret­ta­mente o inver­sa­mente pro­por­zio­nale a quello di rea­li­smo. Il guar­diano, Cesare, un dipen­dente della coo­pe­ra­tiva Ino­pera che gesti­sce il cen­tro, ha rice­vuto l’ordine di non far entrare i gior­na­li­sti e non se la sente di tra­sgre­dire. Ci invita, piut­to­sto, a fare un giro nelle diverse occu­pa­zioni che ci sono nei din­torni, dan­doci indi­ca­zioni det­ta­gliate e pre­ci­sando che anche lui abita in una casa occupata.

Qual è il motivo di tanto mistero, se sul sito web della strut­tura si vedono foto di stanze pulite e gente al lavoro, e si legge che «la Best House Rom dispone di 52 camere da letto cli­ma­tiz­zate ed arre­date, di ser­vizi igienico-sanitari suf­fi­cienti per il numero degli ospiti, di una mensa con capienza 130 posti, di lavan­de­ria, un labo­ra­to­rio ludico-didattico, un labo­ra­to­rio di rici­clo e di una pic­cola pale­stra»? Per­ché impe­dire l’accesso ai media in una strut­tura comu­nale, d’accoglienza e non deten­tiva? Cos’è che non si vuole mostrare? Cesare allarga le brac­cia: «Beh, si sa che le camere sono senza luce».
I diritti si con­qui­stano “a spinta”

Sono venuto in que­sta peri­fe­ria indu­striale della capi­tale per veri­fi­care le con­di­zioni dei rom dopo il pas­sag­gio dall’era Ale­manno a quella Marino e sapevo fin dalla par­tenza che dif­fi­cil­mente sarei riu­scito a spun­tarla. Avevo cer­cato di otte­nere un rego­lare per­messo per visi­tare la strut­tura accom­pa­gnato da un foto­grafo, ma dopo essere rim­bal­zato da quest’ultima alla sede della coo­pe­ra­tiva, poi al Cam­pi­do­glio fino a incoc­ciare in un bel no alla richie­sta d’ingresso da parte dell’assessorato alle Poli­ti­che sociali, mi sono deciso a pre­sen­tarmi alla Best House Rom di persona.

La via Tibur­tina di Roma, abban­do­nato il fer­mento di San Lorenzo e tra­ver­sati i quartieri-formicaio oltre la nuo­vis­sima sta­zione dell’alta velo­cità, assume una veste indu­striale man mano che ci si spinge verso il Rac­cordo anu­lare. Sale gio­chi dai nomi ame­ri­ca­neg­gianti, sky­line new­yor­chesi e inse­gne plu­ri­co­lo­rate aggiun­gono un tocco di squal­lido kitsch. Una di que­ste è inte­ra­mente bru­ciata, e una mac­chia nero car­bone si allarga come un neo sulla pelle di que­sta peri­fe­ria rag­grin­zita. Le indu­strie hanno quasi tutte preso il volo, lasciando sche­le­tri di edi­fici incu­sto­diti. Via Visso è una stra­dina ano­nima e insi­gni­fi­cante che dalla strada con­so­lare si adden­tra tra le fab­bri­chette, ed è tutta un alter­narsi di mura e can­celli. La Best House Rom si trova al numero 12. Era una stam­pe­ria, non l’unica da que­ste parti. Nell’età d’oro della carta quest’angolo di Roma era dedi­cato alla stampa di gior­nali, mani­fe­sti, locan­dine pub­bli­ci­ta­rie. Nel ’68, non lon­tano da qui l’occupazione di una tipo­gra­fia si pro­lungò per tre­dici mesi e pro­vocò una mobi­li­ta­zione senza pre­ce­denti che fu immor­ta­lata da Ugo Gre­go­retti nel film Apol­lon, una fab­brica occu­pata. La colonna sonora, regi­strata in presa diretta, sarà suc­ces­si­va­mente pub­bli­cata dal mani­fe­sto. Oggi la sto­ria un po’ si ripete, in maniera solo più ano­nima: un’altra stam­pe­ria dismessa è inte­ra­mente occu­pata da un pugno di squat­ter. A farlo sapere ai pas­santi distratti ci pensa uno stri­scione. Lo slo­gan è figlio del disin­canto nei con­fronti della poli­tica isti­tu­zio­nale: «I diritti si con­qui­stano a spinta».

Alle 11 del mat­tino il cor­tile della Best House Rom è affol­lato. Un gruppo di uomini gioca a carte, le donne fanno capan­nello tra loro e i ragazzi pure. Par­lano volen­tieri, snoc­cio­lando un nutrito cahier de doléan­ces: «Den­tro è troppo buio, si vive meglio in car­cere», «da quando siamo qui ci amma­liamo di con­ti­nuo», le visite di parenti e amici non sono con­sen­tite e alle 11 di sera si chiu­dono i can­celli. Un’anziana signora con il capo velato sostiene di essere arri­vata il giorno prima dalla Bosnia per incon­trare figli e nipoti e di essere stata costretta a dor­mire all’addiaccio, davanti all’ingresso, per­ché per gli estra­nei non c’è posto all’interno. Chiedo a Cesare quanti sono gli ospiti in que­sto momento. Circa 350, mi risponde, rom bosniaci e rumeni che con­vi­vono senza par­ti­co­lari attriti. Fanno sei per­sone a camera, senza fine­stre e alla luce dei neon.

A denun­ciare le con­di­zioni dei rom di via Visso era stata l’Associazione 21 luglio, lo scorso feb­braio. Ma il grido d’allarme non era stato ascol­tato da nes­suno. I rom non fanno audience e nep­pure votano, in pochi sono dispo­sti a spo­sarne la causa. Per un poli­tico, il rischio è di per­dere con­senso piut­to­sto che attrarne. Igna­zio Marino ha comun­que voluto incon­trare, una decina di giorni fa, alcuni espo­nenti dell’associazione. Al ter­mine, il sin­daco di Roma si è detto con­vinto che si sia trat­tato dell’inizio di «un ottimo cam­mino che faremo insieme per miglio­rare il volto della città». Eppure il dos­sier dell’organizzazione uma­ni­ta­ria è poco cle­mente nei suoi con­fronti. Elenca uno per uno i 17 sgom­beri in un anno e accende i riflet­tori sulle con­di­zioni di vita degli 8 mila rom e sinti che abi­tano il ter­ri­to­rio romano, capro espia­to­rio per eccel­lenza del males­sere sociale in quest’Italia d’inizio mil­len­nio. Tutto som­mato si è trat­tato di sba­rac­care pic­coli inse­dia­menti abu­sivi, poca roba rispetto a quanto acca­duto con il suo pre­de­ces­sore. Ma i ricer­ca­tori dell’Associazione 21 luglio non si sono fer­mati alla super­fi­cie. Hanno chie­sto una visura cata­stale dell’edificio che ospita la Best House Rom, sco­prendo che la strut­tura risulta cata­lo­gata come C2, ossia un «locale uti­liz­zato per il depo­sito di merci, locali di sgom­bero, sot­to­tetti». «Ogni stanza ha una dimen­sione media di circa 12 metri qua­dri. Cor­ri­doi e stanze hanno un con­tro­sof­fitto e sono privi di fine­stre. L’illuminazione sia not­turna che diurna è garan­tita attra­verso lam­pade al neon, men­tre l’aerazione arti­fi­ciale è assi­cu­rata da impianti di con­di­zio­na­mento. Oltre ai letti, la strut­tura non dispone di arredi», scri­vono nel dos­sier, inti­to­lato non a caso «Senza luce». Inol­tre, cal­co­lando 19 euro al giorno (più l’Iva al 4%) per i 320 rom ospi­tati al momento della loro visita, l’amministrazione spen­de­rebbe 6323,20 euro al mese per ogni per­sona. Una cifra da far impal­li­dire qual­siasi addetto alla spen­ding review.
All’ombra del Sacro Gra

La Best House Rom ha un nome da bed and break­fast per turi­sti e chissà se chi ha pen­sato al suo nome ha riflet­tuto su quel che let­te­ral­mente stava a signi­fi­care: la miglior siste­ma­zione per i rom. Qui sono stati por­tati gli zin­gari pro­ve­nienti da uno dei campi attrez­zati pre­vi­sti dal «Piano Nomadi» dell’ex sin­daco Ale­manno: quello di via della Cesa­rina, all’ombra di uno svin­colo del Sacro Gra sulla via Nomen­tana. Sono stato anche lì. L’area è stata in gran parte ripu­lita, non ci sono più tracce della pre­senza degli zin­gari, fatta ecce­zione per alcuni dise­gni di bam­bini che nes­suno ha stac­cato dalle mura di un edi­fi­cio pro­ba­bil­mente adi­bito a scuola. Si tro­vano invece i resti del pre­e­si­stente cam­ping Nomen­tano. Su una lava­gna all’aperto sono ben visi­bili i prezzi del bar, ancora in lire. Una scritta in inglese lo defi­ni­sce come «il cam­peg­gio più vicino al cen­tro sto­rico della capi­tale», seb­bene cir­con­dato su due lati dalla cam­pa­gna, su un terzo da un edi­fi­cio dell’Asl e inca­strato sotto lo svin­colo del Raccordo.

I rom della Best House dovreb­bero tor­nare qui tra pochi mesi, appena il nuovo campo sarà rico­struito. Ma il loro ritorno non si annun­cia sem­plice. L’Europa esige il supe­ra­mento della poli­tica dei campi-ghetto e Marino è finito nel mirino del Con­si­glio d’Europa, di Amne­sty Inter­na­tio­nal e della stessa asso­cia­zione 21 luglio, che chie­dono la chiu­sura di tutti i campi e l’assegnazione di case popo­lari ai rom sgom­be­rati. Inol­tre, una stri­scia di pla­stica bianca e rossa cir­co­scrive l’area sot­to­po­sta a seque­stro penale, con la dici­tura «zona con­ta­mi­nata da amianto – Eter­nit». Dun­que da bonificare.

Davanti alla Best House incon­tro un uomo che ha tutta l’aria di essere uno dei lea­der della comu­nità. Dice di chia­marsi Lukas, sostiene che qui «si vive male, que­sto posto è una schi­fezza» e che i rom vogliono tor­nare a via della Cesa­rina, dove erano più liberi. Certo, le rou­lotte e le barac­che erano fati­scenti – dice — però ora che costrui­ranno i bun­ga­low ci si vivrà meglio che in pas­sato. Ma non sarebbe pre­fe­ri­bile tra­sfe­rirsi in un’abitazione vera, gli chiedo? Lukas fa sfog­gio di prag­ma­ti­smo: «Vi imma­gi­nate cosa acca­drebbe se uno zin­garo togliesse la casa popo­lare a un ita­liano che sta in lista d’attesa da anni? Per noi è meglio andare in un campo attrez­zato». Gli pare la solu­zione più pra­ti­ca­bile. Gli altri rom annuiscono.
I paria d’Europa

È un pro­blema non da poco: di fronte al rischio di una guerra tra poveri, i diretti inte­res­sati paiono ritrarsi. I rom sanno bene di essere i paria d’Europa: per­se­gui­tati e discri­mi­nati in molti Paesi dell’Est, vit­time di veri e pro­pri pogrom durante le guerre bal­ca­ni­che, dove molti di loro ave­vano casa prima di essere costretti a fug­gire, sgom­be­rati e discri­mi­nati un po’ ovun­que. In Fran­cia, prima ancora che facesse il giro del mondo il caso di Leo­narda, una ragaz­zina di 15 anni fer­mata durante una gita sco­la­stica ed espulsa verso il Kosovo, paese di ori­gine dei geni­tori in cui lei non era mai stata, il mini­stro dell’Interno Manuel Valls, non ancora pre­mier, aveva scan­da­liz­zato l’opinione pub­blica di sini­stra dicendo che «i rom in Fran­cia non si pos­sono inte­grare», facendo suo l’armamentario reto­rico della destra lepe­ni­sta. Un mese fa è pas­sato sotto silen­zio l’ennesimo sgom­bero fai-da-te ita­liano. Nel quar­tiere napo­le­tano di Pog­gio­reale, in seguito a una vox populi di mole­stie su una sedi­cenne, una cin­quan­tina di cit­ta­dini ha assal­tato un campo nomadi, costrin­gendo cin­que­cento rom a rac­co­gliere le loro cose e andar via. E, tor­nando a Roma, ha fatto il giro d’Italia il car­tello espo­sto da un pani­fi­cio nel quar­tiere Tusco­lano, che a più di uno ha ricor­dato la Ger­ma­nia nazi­sta degli anni ‘30: «Vie­tato l’ingresso agli zin­gari». Il com­mer­ciante si è difeso soste­nendo di aver agito non per raz­zi­smo bensì per esa­spe­ra­zione, met­tendo il dito nella piaga. Come evi­tare che un mal­con­tento dif­fuso tra­cimi in xeno­fo­bia senza mezzi ter­mini, e che quest’ultima fini­sca per essere rac­colta da una forza poli­tica e tra­sfor­mata in raz­zi­smo di Stato? In che modo impe­dire che si risve­gli una seconda volta il mostro che dorme in fondo alle coscienze euro­pee, che la sto­ria si ripeta in forme ine­dite e non in farsa?

Chiamo il Segre­ta­riato gene­rale di Amne­sty Inter­na­tio­nal a Lon­dra. Sanno bene che in que­sto momento si tro­vano a remare con­tro­cor­rente rispetto all’ondata di xeno­fo­bia e secu­ri­ta­ri­smo che inve­ste il con­ti­nente e si attrez­zano a una cam­pa­gna «cul­tu­rale» di lungo respiro. Pre­oc­cu­pati dalla situa­zione romana, il 14 feb­braio scorso hanno inviato una let­tera al sin­daco Marino e si dicono «scon­cer­tati» per la man­cata rispo­sta. L’organizzazione aveva chie­sto spie­ga­zioni per­ché inti­mo­rita, oltre che dagli sgom­beri for­zati e dalla man­cata chiu­sura dei campi fatti costruire da Ale­manno oltre il Rac­cordo Anu­lare, dalla man­cata abro­ga­zione di una cir­co­lare dell’ex sin­daco con la croce cel­tica al collo, risa­lente al 18 gen­naio 2013, che retro­cede i rom rispetto agli ita­liani nell’assegnazione delle case popo­lari. In buona sostanza, il prov­ve­di­mento non rico­no­sce a chi vive nei campi attrez­zati lo stato di disa­gio abi­ta­tivo. Ma non è che prima le cose andas­sero meglio. Nella capi­tale il diritto alla casa per un rom è sem­pli­ce­mente negato: su 50 mila asse­gna­tari di un appar­ta­mento dell’Ater, appena lo 0,02 è di pro­ve­nienza gitana. Per veri­fi­care di per­sona la situa­zione il Com­mis­sa­rio per i diritti umani del Con­si­glio d’Europa Nils Muiz­nieks alla metà di marzo si è pre­sen­tato a Roma. Nei giorni scorsi è arri­vato pure John Dalhui­sen, diret­tore del Pro­gramma Europa e Asia Cen­trale di Amne­sty Inter­na­tio­nal. In un con­ve­gno orga­niz­zato per la gior­nata inter­na­zio­nale dei rom ha chie­sto al sin­daco di «fare chia­rezza su come intenda impie­gare i fondi recen­te­mente messi a dispo­si­zione dalla Regione Lazio per la cosid­detta emer­genza abi­ta­tiva». Ma finora non si è mosso nulla. Eppure, ricor­dano alla sede romana di Amne­sty, «a otto­bre Marino si era impe­gnato a riti­rare le misure discri­mi­na­to­rie nei con­fronti dei rom resi­denti nei campi».

Il noc­ciolo della que­stione è tutto lì: il nuovo sin­daco si trova a ere­di­tare una situa­zione creata dal suo pre­de­ces­sore e le orga­niz­za­zioni per i diritti umani si aspet­tano da lui, un “libe­ral” attento ai diritti civili, almeno che smonti il «Piano Nomadi» della giunta di cen­tro­de­stra. Anche la stam­pe­ria senza fine­stre di via Visso è figlia dell’era Ale­manno. Fu uti­liz­zata per dare un tetto ai senza dimora durante l’«emergenza freddo» di due anni fa, quando a Roma nevicò dopo 25 anni, le misure di pre­ven­zione si rive­la­rono ine­si­stenti, la città si bloccò e Ale­manno rime­diò una figu­rac­cia che fece il giro del mondo. Allora la neve si sciolse al primo rag­gio di sole, e fu l’annuncio di una pri­ma­vera demo­cra­tica per la capi­tale di un paese sull’orlo di una crisi di nervi. Oggi è già pri­ma­vera, ma la sta­gione appare molto diversa.


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