La guerra dell’acqua contro il voto in Iraq

La guerra dell’acqua contro il voto in Iraq

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BAGDAD — Acqua, acqua dovunque, un gigantesco allagamento per le campagne, che sfiora la periferia occidentale della capitale. Arrivando in aereo da Amman non puoi non notarlo. Ti aspetti di individuare dall’alto, tra il giallo scuro e monotono del deserto sassoso, le lunghe code di vetture ferme ai controlli imposti dalla polizia in vista delle elezioni parlamentari di domani e invece è come se improvvisamente Bagdad fosse diventata un città lacustre. Passata Falluja e poco prima di Abu Ghraib — dove si trovava il terribile carcere voluto da Saddam Hussein trent’anni orsono, poi diventato sinonimo delle violenze americane contro i prigionieri iracheni — l’autostrada per la Giordania si interrompe e inizia la distesa piatta e melmosa dell’inondazione. Ogni tanto un canale più profondo, abitazioni isolate, alberi semi sommersi, macchie di cespugli alti. «E’ cominciato tutto ai primi di aprile. I guerriglieri del gruppo estremista noto come lo Stato Islamico in Iraq e del Levante, attaccati dai soldati delle brigate scelte sciite inviate dal governo di Nuri al Maliki, hanno optato di rispondere chiudendo le dighe sull’Eufrate. Ma è una catastrofe. Abbiamo oltre 100.000 profughi in fuga verso nord. L’agricoltura, il commercio, le scuole, ogni possibilità di movimento sono impediti», ci racconta Jaber Jabari, ex deputato per le liste sunnite al parlamento nazionale che risiede a Falluja e incarna il dramma di queste popolazioni strette tra l’incudine della guerriglia estremista, sempre più legata a filo doppio con i militanti islamici siriani che combattono il regime di Bashar Assad, e invece la maggioranza sciita degli iracheni. Per qualche giorno le truppe regolari sono riuscite a riprendere il controllo delle chiuse. Ma da una settimana hanno dovuto ritirarsi. E l’acqua ha ripreso a salire, mentre il corso del fiume più a sud è tornato ad essere in secca. Non è un caso che lo stesso carcere di Abu Ghraib sia stato evacuato due settimane fa e i detenuti distribuiti in altre prigioni. Era minacciato dalla guerriglia e soprattutto dall’inondazione.
Una guerra delle acque che rischia di scatenare il disastro ecologico, non solo sull’Eufrate. E’ infatti del 16 aprile l’attentato degli estremisti sunniti presso la raffineria di Beji (nella zona di Tikrit, 220 chilometri a nord di Bagdad) contro l’oleodotto che dai pozzi del sud porta il greggio in Turchia. Una chiazza nera gigantesca ha così inquinato gran parte del corso centrale del Tigri. A poco sono serviti i tentativi di ridurla incendiandola. I depuratori civili che pescano dal fiume e forniscono la rete idrica della capitale si sono dovuti fermare. «E’ un dramma. Il Tigri e l’Eufrate sono il Nilo della Mezza Luna Fertile. Blocchi o inquini il corso del fiume e il Paese muore», notano fonti diplomatiche occidentali nella capitale. Ma le notizie sono frammentarie, vengono nascoste, sminuite. Il governo non vuole causare allarmismi ulteriori, che si aggiungerebbero all’emergenza attentati.
Tempo di elezioni nell’Iraq ancora gravemente traumatizzato dalle conseguenze dell’invasione americana del 2003. E’ la quarta volta che i suoi cittadini (circa 21 milioni gli aventi diritto al voto) vanno alle urne per eleggere i 328 deputati del parlamento dalla caduta del regime di Saddam. Ed è la prima dal ritiro dei militari Usa nel 2011. Sul fronte politico il carosello variopinto di manifesti elettorali, gli oltre 9.000 candidati (quasi un terzo donne), i 277 gruppi politici, in grande maggioranza del tutto sconosciuti, riflettono la partecipazione caotica ed eccitata che abbiamo già visto caratterizzare i Paesi usciti di fresco dalle dittature, ma privi di una solida tradizione democratica. Maliki ha fatto carte false pur di restare in sella (dopo otto anni) e venire rieletto per la terza volta. Eppure il campo sciita (quasi il 70 per cento dell’elettorato) è oggi più diviso che mai. Come del resto lo sono i curdi nell’enclave de facto indipendente del nord e gli stessi sunniti. «Nessuno tra i nostri politici ha il coraggio di dirlo pubblicamente. Ma nel concreto l’Iraq sta andando a grandi passi verso la divisione netta in tre Stati indipendenti. Siamo ancora assieme semplicemente perché non troviamo leader abbastanza competenti per garantirci una partizione ordinata. Temiamo talmente le nostre debolezze che vi affoghiamo dentro», ci confidava due giorni fa il 43enne Ahmad Zanghenk, commentatore politico per Al Rasheed, una delle quattro maggiori televisioni private. Conseguenza diretta è il permanere della guerra civile strisciante, alimentata dal braccio di ferro tra Iran e Arabia Saudita per l’egemonia sulla regione combattuto direttamente sul territorio iracheno. I dati parlano da soli. Dopo la calma relativa imposta manu militari dagli americani tra il 2008 e il 2011, il tasso della violenza ha ripreso a crescere. Oltre 9.000 gli iracheni morti nel 2013. Meno della media di oltre 3.000 mensili nel 2006. Ma certo un bilancio grave. Dal gennaio di quest’anno è stata superata quota 3.000, di cui circa 600 tra soldati e poliziotti, compresa la trentina di uccisi ieri, aggrediti mentre stavano in coda per votare ai seggi aperti appositamente per loro al fine di garantire la totale mobilitazione mercoledì.
«Siamo sull’orlo del caos. E la nuova guerra delle acque dimostra quanto troppi giovani non abbiano più nulla da perdere. Allagano le loro case pur di danneggiare il governo. Danneggiano se stessi e non se ne curano», notano ancora i diplomatici stranieri. Non ci sono dati verificabili. Quello che risulta certo è però che già il sud del Paese ne sta risentendo in modo diretto. «Il livello dell’Eufrate è sceso in modo considerevole. A Nassiriya segnalano già carenze idriche, e così pure a Bassora. Circa 200 villaggi nella provincia di Al Anbar, come pure Abu Ghraib sono inondati», nota il quotidiano locale Azzaman. Se la piena non venisse fermata, potrebbe rimanere sommerso l’aeroporto internazionale della capitale. Al Amiryia, uno dei quartieri occidentali di Baghdad, vede già gli abitanti mobilitati per l’esodo.
Lorenzo Cremonesi


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