Il grande risiko del fiscal compact

Il grande risiko del fiscal compact

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È DAL giorno in cui è stato firmato che si parla di rinegoziare il fiscal compact, l’impegno con l’Unione europea per un definito piano di rientro fiscale nei prossimi venti anni. E man mano che la sua attuazione si avvicina il chiacchiericcio si fa sempre più intenso.
IL MOVIMENTO Cinque Stelle sparge terrore, e richiede a gran voce che esso sia “strappato”. E mentre molti altri commentatori, a sinistra come a destra, sono d’accordo nella sostanza, il governo fa spallucce, strizzando l’occhio ad una qualche altra via d’uscita creativa.
L’obiettivo del fiscal compact è una riduzione del rapporto debito-Pil al 60% in 20 anni. Semplificando, questo richiede circa 3 punti di Pil l’anno (oggi siamo al 135%), cioè circa 50 miliardi di Euro. Il fiscal compact impone anche dei vincoli sul rapporto deficit-Pil, il famoso 3%, al fine di garantire una sorta di rientro fiscale bilanciato.
Il numero-bomba di 50 miliardi che terrorizza il paese è quindi davvero parte del fiscal compact. Lo è, ma…. C’è sempre un ma. Anzi, in questo caso ce ne sono due. Il primo è che la Francia è messa peggio dell’Italia, con un rapporto deficit-Pil del 4,1% nel 2013 e una serie di promesse di tagli di bilancio che al momento non sono affatto più reali di quelle del governo Renzi. Alla Francia non si dice no in Europa e quindi probabilmente basterà stare buonibuoni nel suo cono d’ombra per ottenere di rinegoziare gli impegni. Il secondo ma è ancora più reale e definito. Ne ha parlato esplicitamente anche Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, che sa bene di cosa parla. Il fatto è che gli impegni del fiscal compact sono condizionati ad una crescita pari alla “crescita potenziale” del paese, per evitare una politica fiscale restrittiva in una fase del ciclo economico in cui il paese cresce meno di quanto potrebbe. Ma la “crescita potenziale” di un paese è concetto tecnico-statistico, pieno di ambiguità (o di possibilità, a seconda di come si vede la questione), che quindi si presta bene ad essere utilizzato grimaldello per smontare l’applicazione del patto.
In buona sostanza, il tasso di crescita potenziale dell’Italia può essere stimato a regime, nell’ipotesi che il paese abbia operato profonde riforme strutturali dal lato dell’offerta, oppure rispetto alle condizioni economiche strutturali in cui il paese si trova oggi. Nel primo caso la crescita potenziale non sarà molto diversa da quella reale della Germania una volta superata la crisi ciclica. Nel secondo caso, sappiamo invece che la crescita potenziale è approssimativamente zero, perché sono più di venti anni che il paese non cresce.
Il paradosso è quindi che ci presenteremo in Europa utilizzando una stima della crescita potenziale a riforme effettuate così da poter evitare di effettuare le riforme. Almeno non da subito.
Il paradosso è frutto del fatto che il nostro sistema politico-istituzionale ha caratteristiche tali da rendere ogni riforma dal lato dell’offerta di difficilissima realizzazione. Queste sono caratteristiche molto profonde: il corporativismo di industria, sindacati e professioni e la struttura clientelare della pubblica amministrazione abbracciano l’intero sistema economico riempiendolo di fonti di inefficienza, dal mercato del lavoro a quello del credito, dalla giustizia alla scuola.
E così ogni occasione è presto persa, ogni risparmio possibile finisce in spesa pubblica ancora prima di essere contabilizzato.
È accaduto ieri con l’Euro e Maastricht ed accade oggi con il fiscal compact. Si dice che è stata la Germania a rompere Maastricht e che vari paesi al di fuori dell’Euro hanno sfruttato a loro vantaggio la sovranità monetaria. È tutto vero, da un punto di vista formale. Ma la sostanza è diversa. La Germania ha sì rotto Maastricht, ma lo ha fatto per limitare i costi delle fondamentali riforme strutturali che stava avviando; mentre l’Italia ha invece utilizzato la rottura di Maastricht proprio per non farlo. Ed è vero che Regno Unito e Svezia, ad esempio, si sono avvantaggiate dallo stare fuori dall’Euro, ma anch’esse hanno utilizzato questi vantaggi per portare a termine le stesse riforme, non per evitarle.
Il punto è che la struttura politico-istituzionale di alcuni paesi, per varie ragioni, permette loro di portare a termine riforme strutturali profonde in un orizzonte di medio periodo, se esse sono ritenute necessarie. L’Italia non è in grado di farlo e per questo prova a legarsi le mani con l’Europa. Il problema è che poi trova sempre il modo di slegarsele. Il governo Renzi sembra avere chiaro in mente il paradosso, dice di voler agire sul sistema politico- istituzionale del paese, ma intanto procede come da copione e si slega le mani.
Il paradosso è che ci presenteremo in Europa utilizzando una stima della crescita a riforme effettuate così da poter evitare di effettuarle


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