by redazione | 9 Aprile 2014 13:23
LA NOTIZIA ha fatto il giro del mondo: Eva Braun era ebrea. Lo prova il suo Dna, rintracciato grazie a una spazzola da capelli. La notizia voleva colpire: Che scherzi fa la storia! Però dava per assodato che l’antica questione di che cosa voglia dire essere ebrei si risolvesse (di nuovo) in un dato biologico: a definire l’essere ebrei è un’analisi del Dna. Ormai, oltretutto, alla portata di (quasi) tutte le tasche, in rete. Il razzismo biologico, dall’Ottocento in qua, aveva proclamato di fornire un fondamento scientifico alle sue due pretese essenziali: 1 che il genere umano si divida in razze diverse, e 2-che le razze non siano solo diverse, ma superiori e inferiori. Inferiori fino al punto di meritare d’essere sterminate. Se il primo assunto, l’esistenza di razze diverse, fosse stato vero, la conseguenza — superiori e inferiori, fino alla “subumanità” — non sarebbe stata meno arbitraria, infame e criminale. Quella pretesa “scienza”, cui l’accademia italiana del ventennio si prostituì largamente, non era la premessa dell’odio razzista, ma la sua serva.
LA genetica ha dimostrato la fallacia della nozione di razza (leggere Luigi Luca Cavalli Sforza): le diversità che impariamo ad apprezzare crescono su una formidabile omogeneità e somiglianza. Impareremo anche, prima o poi, a sentire più la somiglianza che la distanza dagli altri animali. Tuttavia questo, che è davvero un progresso, è contraddetto dall’invadenza con cui le meraviglie della genetica diventano luogo comune: “È nel mio Dna”. Una volta era il sangue, che “non mentiva”… Ma nel nostro Dna non è scritto niente di quello che pensiamo diciamo o facciamo, del gioco difensivo o di attacco della nostra squadra, della onestà del nostro partito, dell’avarizia di nostra zia. Ci siamo così abituati a giurare sul nostro Dna, da non batter ciglio alla notizia che Eva Braun era ebrea. Il che non è escluso, naturalmente. Poco tempo fa Csanad Szegedi, il numero due di Jobbik, il partito neonazista ungherese, sfegatato persecutore di ebrei, ha scoperto di avere un’ascendenza ebraica, si è dimesso e ha invocato il perdono del rabbino capo di Budapest. Del resto, in Ungheria non c’è beninformato che non vi confidi che la madre di Orbàn era una signora rom. La genetica aiuta a fare bellissime scoperte sulla storia delle popolazioni, dei loro spostamenti, dei loro incroci. Questo riguarda anche popolazioni ebraiche, in particolare la più vasta, e più enigmatica quanto alla provenienza originaria, l’ashkenazita. Le ricerche, via via più sofisticate, sul Dna ricostruiscono percorsi e incontri possibili: possibili, perché nemmeno qui c’è la certezza, e risultati diversi si confrontano, e non di rado premesse diverse li influenzano. C’è una forte probabilità che gli ashkenazim siano arrivati in Europa orientale a partire dal Vicino Oriente. I biologi statistici che la misurano, così come i loro colleghi archeologi che scavano la terra invece che le molecole, devono guardarsi dal mirare a identificare, a parti rovesciate, una irriducibile identità ebraica, e a fare del legame antico con un territorio una ragione del diritto attuale a quel territorio. Oltretutto, per la biologia come per l’archeologia e la gastronomia e tutto il resto dev’esserci una prescrizione. Grazie al Dna si ricostruisce un’ascendenza paterna, dal cromosoma Y, o materna, mitocondriale. Nel caso della materna, molte ricerche sembrano arrivare a donne, specialmente italiane o europee, sposate da immigrati ebrei e convertite all’ebraismo: circostanza che mostra come ci si muova dentro una storia culturale e non una predestinazione biologica. Queste ricerche, così delicate per il bilico tra determinismo genetico e vicenda storico-geografica, sono piene di fascino: ho scoperto dopo aver deciso di scrivere questo articolo un recupero postumo dello studio di Arthur Koestler sulla “Tredicesima tribù” (1976). L’autore di “Buio a mezzogiorno” raccontava l’impero guerriero dei Cázari, tra il V secolo d. C. fino alla caduta di Bisanzio, nel nord del Caucaso, che nell’VIII secolo, di fronte alla pressione musulmana, si era improvvisamente convertito alla religione, alla lingua e al costume ebraici. Spinti verso occidente dall’avvento dei nordici rus e di Gengis Khan, i cázari sarebbero diventati — qui era la spettacolosa tesi del libro — gli ebrei ashkenaziti di Polonia, Ucraina, Ungheria, Lituania: dunque le più numerose vittime dell’antisemitismo nazista non sarebbero state semite, bensì turchiche, legate al Caucaso rivendicato dagli “ariani” e non alla Palestina. Gran libro, che consiglio, e gran rumore e scandalo, anche. Il libro era, e probabilmente resta, molto più suggestivo che convincente. Oggi alcuni biologi hanno creduto di provarne attraverso l’indagine genetica la fondatezza: altrettanto suggestivamente, ancor meno convincentemente.
Gli studi più accreditati assegnano all’80 per cento dei maschi ebrei e al 50 per cento delle femmine una provenienza ancestrale dal Vicino oriente. La quota mancante spetterebbe a conversioni e matrimoni misti. Nella disputa fra sostenitori scientifici dell’omogeneità genetica degli ebrei e di un’origine largamente prevalente in Palestina, e i loro avversari, riaffiora costantemente la dannata tentazione di ricavare dalla biologia conseguenze culturali e perfino politiche. Vedo che Harry Ostrer, pur fautore dell’omogeneità “razziale” e della partenza mediorientale, resiste tuttavia a quel “riduzionismo”, e sottolinea che alcuni marcatori genetici sono comuni a ebrei e palestinesi. (Anche se così non fosse, la questione politica — il mutuo “diritto al Ritorno” — non ne sarebbe toccata). Lo storico Shlomo Sand, discusso epigono dell'”ipotesi cázara” e antisionista, aveva comunque ragione a sottolineare che «una volta dire che gli ebrei sono una razza era antisemita, ora dire che non sono una razza è antisemita: la storia si diverte a farci impazzire».
Il Dna ci rende individualmente diversi, e differenzia anche i gruppi. La loro influenza fisica è sensibile. L’isolamento in cui gli ebrei hanno vissuto o sono stati forzati e la quota di endogamia fa sì che la ricerca mirata alla cura delle patologie vi trovi un campo privilegiato. È il futuro della genetica, cui si affidano progetti (e affari) spinti fino all’immortalità. Dalla mappatura del genoma dei 320 mila islandesi (che non sono una razza) si promette una terapia dell’Alzheimer. Sul resto, l’intelligenza, i modi di vivere, la cultura, i geni non hanno la prima parola, né l’ultima. Forse Eva Braun ebbe parenti ebrei. Nel 2010 un’indagine belga condotta sul Dna salivare «di 39 discendenti di Hitler» dichiarò di aver rintracciato «il cromosoma Aplogruppo Eib 1b1, comune fra ebrei ashkenazim e sefardim, e fra popoli nordafricani ». Mah. La mia è una modesta proposta: piantiamola di dire “ce l’ho nel mio Dna”. Se ce l’ho, ce l’ho altrove.
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