Dal cane Pando alla « drug education »
Ventisei marzo, Istituto per geometri Sangallo di Terni. Il cane Pando fa il suo ingresso in classe, è un cane antidroga, fa il suo mestiere. Ma anche il professor Franco Coppoli sta facendo il suo, di mestiere, insegna, dichiara agli agenti di non voler interrompere il suo «pubblico servizio» e li invita a uscire. Un gesto, quello del professore, che non finisce lì, sarà giudicato e sanzionato con un provvedimento disciplinare per aver impedito il controllo in aula della polizia. Quello di Terni non è un episodio nuovo e tantomeno isolato, si è ripetuto spesso anche in questi mesi di post Fini-Giovanardi. L’assunto che la repressione, meglio se esibita e con forte impatto, serva alla dissuasione fa parte ormai del senso comune, di quello della politica e anche di quello di certi «scienziati» embedded.
Vale la pena riparlarne per almeno tre motivi.
Primo: Pando oggi non sta più fuori dai cancelli ad annusare, entra nelle aule, l’impatto è forte, il linguaggio non è quello del mero controllo ma quello della deterrenza, e il rapporto che si cerca così con il mondo degli educatori non è una alleanza, è una sudditanza ancillare e muta. Un approccio che rende pedagogicamente ridicola la tesi dell’efficacia dell’alternare parole educative a parole repressive: Pando non apre uno spazio educativo, Pando lo chiude (del resto sa solo abbaiare). Che il professor Coppoli si sia sentito espropriare di parola e ruolo è il minimo.
Secondo: la sconcertante impermeabilità nel tempo di queste prassi alla «evidenza» della loro inefficacia: l’alleanza tra «educare e punire» ha dimostrato nei decenni la sua pochezza (vedere gli andamenti dei consumi per credere). L’approccio deterrente, di reaganiana memoria (la «zero tolerance») ha avuto proprio negli Usa, dove ha drenato milioni di dollari, la sua più radicale critica. Tra gli altri: gli studi del pedagogista Rodney Skager, della California, sul fatto che, repressione o no, i ragazzi consumano comunque, quello della Università del Michigan, sulla inutilità dei test sui ragazzi, fino al modello educativo «La sicurezza al primo posto: un approccio basato sulla realtà» di Marsha Rosenbaum, direttrice della Drug Policy Alliance di San Francisco, che così sintetizza il suo pensiero: «La realtà è che oltre la metà dei giovani adolescenti americani sperimenta l’uso di droghe illegali nel periodo in cui frequenta le scuole medie superiori. Tuttavia, l’obiettivo principale della gran parte dei programmi è quello di prevenire il consumo. Un approccio realistico dovrebbe concentrare le nostre energie sulla prevenzione dei comportamenti d’abuso. Ci riferiamo a chi alla droga dice “no”, ma dovremmo offrire un’informazione onesta e scientificamente corretta a chi dice “forse”, o “qualche volta” o “sì”».
E qui sta il terzo punto: è ora che gli educatori (tutti, dai genitori agli insegnanti al mondo adulto) si riprendano parola e responsabilità. Il gesto di Franco ha senso se si restituisce alla «normalità» delle relazioni quotidiane il discorso sull’uso di sostanze: si chiama «drug education», significa consapevolezza, ascolto, informazione corretta. Significa, con Marsha Rosembaum, prevenire l’abuso e contenere i rischi.
Ma «drug education» non ha una traduzione in italiano, grazie al Dipartimento antidroga l’Italia ha fin qui puntato sulla «early detection» che significa individuare – magari invitando i genitori ad effettuare i test sui figli o mandando i cani — i consumi per avviare i ragazzi/e alla patologizzazione e alla repressione. Un suicidio educativo.
Leggi il dossier «Drug education» su www?.fuo?ri?luogo?.it
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