Così l’America ci mostra la via d’uscita

Così l’America ci mostra la via d’uscita

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LA CRISI è dietro di noi, negli Stati Uniti, s’intende. L’ultimo dato sulle assunzioni (+192 mila a marzo) segna un tornante. L’America ha rigenerato tutti gli 8,8 milioni di posti di lavoro perduti nella maxi-recessione. Oggi ha 116 milioni di occupati: più di quanti erano nel gennaio 2008, ultimo mese di prosperità prima della Grande Contrazione. La disoccupazione odierna, al 6,7%, è quasi metà di quella europea. Qualcosa la traiettoria americana dovrebbe insegnare all’eurozona e al governo Renzi.
La ripresa Usa è invidiabile ma non ha curato tutte le ferite sociali. Ci sono ancora 10,5 milioni di disoccupati, il potere d’acquisto delle famiglie migliora in misura impercettibile, le diseguaglianze continuano. Ma il segnale più positivo è il ritorno dei disoccupati scoraggiati. Ben 780 mila americani che erano spariti dalle statistiche della forza lavoro adesso sono tornati a cercare un posto e lo hanno trovato. Janet Yellen, alla guida della Federal Reserve, ha impressionato l’America per la determinazione con cui vuole combattere la disoccupazione. Lunedì a Chicago ha voluto incontrare di persona alcuni disoccupati, ha raccontato le loro storie, usandole come un monito alla nazione: «Dietro le statistiche ci sono persone vere».
Sull’altra sponda dell’Atlantico anche la Bce è finita sotto i riflettori. Mario Draghi, sfruttando le caute aperture che aveva ottenuto dal suo “azionista” tedesco (la Bundesbank) ha accennato che in futuro potrebbe seguire l’esempio della Fed: stampare moneta per comprare bond, e in questo modo pompare liquidità per sostenere la ripresa dell’eurozona. La reazione dei mercati è stata cauta. Intanto sull’eurozona continua ad avanzare lo spettro della deflazione: i prezzi crescono dello 0,5% in media; in Spagna addirittura diminuiscono dello 0,2%. Quando i prezzi scendono le conseguenze sono catastrofiche. Debito e deficit pubblico aumentano, perché sono espressi in valore fisso (nominale) e quindi vanno restituiti al “prezzo forte”. I consumatori rinviano le spese aspettando ulteriori ribassi. Le imprese non investono e non assumono perché la deflazione deprime tutte le aspettative. Il Pil scende, il rapporto debito/Pil di riflesso peggiora. È una storia che il Giappone ha vissuto per vent’anni. Ne sta uscendo, solo dopo avere copiato alla lettera il manuale d’istruzioni della Federal Reserve. Compresa la svalutazione competitiva dello yen, che segue quella del dollaro. In questo gioco a chi indebolisce di più la propria moneta, aiutando le esportazioni, l’eurozona continua a essere perdente: l’euro a 1,37 è compatibile solo con la competitività delle tecnologie tedesche, è insostenibile per gli esportatori italiani o francesi.
Renzi, a differenza di Obama, non può nominarsi la sua Yellen al vertice della Bce. In attesa di rinegoziare i patti europei con l’aiuto del neopremier francese Manuel Valls, l’Italia si affida al Jobs Act per intervenire sul mercato del lavoro. Il piano punta a una “americanizzazione soft”, così come avevano fatto le riforme danesi o tedesche di qualche anno fa: un compromesso accettabile tra flessibilità Usa e protezioni sociali europee. L’obiettivo di un contratto di lavoro unico, a tutele crescenti, è però contraddetto dalla prima misura d’urgenza che liberalizza ulteriormente il precariato. Dal Jobs Act manca poi un ingrediente della flessibilità: quella territoriale. Negli Stati Uniti, le capitali hi-tech come San Francisco e Seattle hanno già da tempo un salario minimo superiore a quello che Angela Merkel introduce adesso in Germania; mentre in Louisiana le retribuzioni sono molto inferiori, come anche il costo della vita. Il modello americano non è tutto valido, né importabile in Europa, in particolare quando include restrizioni alle organizzazioni sindacali. Ma un paese ad alta diseguaglianza Nord-Sud come l’Italia farebbe bene a gettare almeno uno sguardo sul boom industriale del Sud negli Stati Uniti. Un caso dove il federalismo funziona, è nel consentire che i salari e le indennità di disoccupazione siano legate alle condizioni di vita locali.
Certo l’America non avrebbe avuto una ripresa così precoce, se fosse stata ingabbiata nella camicia di forza di Maastricht, incapacitata ad alleggerire il carico fiscale, a manovrare gli investimenti pubblici, a creare moneta in sovrabbondanza, a spingere il credito verso l’economia reale. Insieme alle mosse di Draghi, nei prossimi giorni i mercati guarderanno con attenzione la triangolazione tra Merkel, Valls e Renzi, per capire quale tasso d’innovazione potrà sprigionare.


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