Bosnia. La rivolta operaia in un paese ferito che vuole rinascere

by redazione | 23 Aprile 2014 8:59

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POCO tempo fa il governo norvegese ha solennemente regalato alla Bosnia – Herzegovina sei cani. Sei pastori tedeschi, di quelli bravi a scoprire le mine e le bombe inesplose. La “guerra” finì nel 1995: da allora sono morte per le mine quasi 2 mila persone. Si calcola che ce ne siano ancora, disseminate, fra mine e munizioni varie, per 17 mila tonnellate.
Qualche tempo fa leggevo le cronache della ribellione bosniaca, dicevano che la polizia aveva fatto ricorso a “proiettili di gomma e granate assordanti”. Non sapevo se ridere o piangere. Per quattro anni, i bosniaci erano stati bersaglio di cecchini e di granate ammazzanti, a migliaia al giorno, che erano anche assordanti. Alla lunga, i non ammazzati erano così assordati da non sussultare nemmeno agli scoppi vicini.
La primavera prende un significato speciale, dove passa una guerra. Quando tutte le città della Bosnia si ribellarono, era ancora pieno inverno e faceva freddo, ma ci fu una gran voglia di augurarsela la primavera, e non solo per l’emulazione delle primavere (appassite) del resto del mondo. La canzone di Kemal Monteno che accompagnò gli anni della strage, “Sarajevo ljubavi moja”, amore mio, finiva coi due versi: “Primavera e gioventù riempiranno di nuovo la mia Sarajevo, la mia città unica”. E’ vero che nelle prime file della “primavera bosniaca” c’erano molti che al tempo della guerra non erano ancora nati. Ma c’erano anche i loro padri e madri e le loro nonne e nonni. Le notizie da lì sono facili da raccogliere, difficili da pubblicare. Era difficile perfino con “la guerra”, che è il più grande spettacolo, figuriamoci “la pace”. Vanno messe fra virgolette tutte e due, perché la guerra era soprattutto la strage dei deboli e inermi per mano dei forti e armati; e la pace fu l’interruzione della strage, che era già moltissimo, ma niente di più. Uno Stato fittizio per mascherare la divisione consumata, le “entità”, più o meno scioviniste, tutte attraversate da una corruzione oltraggiosa. Si scoprivano fosse comuni — l’ultima pochi giorni fa — si andava una volta all’anno in pellegrinaggio a Srebrenica, città del genocidio assegnata dall’accordo di Dayton all’“entità” serbobosniaca, cui erano appartenuti gli autori. Ora finalmente ci si batteva dovunque rifiutando o semplicemente ignorando le demarcazioni etniche, religiose e di ogni altro genere cucite addosso alla Bosnia- Herzegovina, dentro e fuori. I guardiani di quelle frontiere sono spaventati e corrono ai ripari. Con la sua capitale a Banja Luka, la Republika Srpska non ha mai nascosto di voler fare per suo conto, e la vicenda ucraina ha eccitato il suo despota, Milorad Dodik, che rivendica una confederazione di tre stati, e se no fa incombere la minaccia di un referendum alla russa per arrivare alla secessione. Oltretutto nel prossimo autunno in Bosnia si terranno le elezioni politiche, e si misureranno gli effetti dell’ultima ribellione, che, in forme meno impetuose, cerca di durare.
Il movimento era partito da Tuzla, città operaia colpita da privatizzazioni truffaldine che preludevano alla speculazione e alla chiusura: Tuzla era riuscita anche negli anni della strage a tener ferma la sua tradizione antinazionalista, guidata dal popolare e coraggioso sindaco, Selim Beslagic. A Tuzla la ribellione aveva preso una forma più matura e si era tradotta in un programma di rivendicazioni rivoluzionarie e ragionevoli: “Formazione di un governo tecnico che guidi il Cantone fino alle elezioni di ottobre, composto da persone competenti e non compromesse… Le indennità di ministri e dirigenti pubblici devono cessare quando cesserà il loro mandato…”. Richieste che suoneranno alle nostre orecchie familiari e insieme sbalorditive per la semplicità e il radicalismo. I clan politici nazionalisti, e non solo loro, hanno degradato la politica ufficiale a un affarismo spregiudicato — una “cleptocrazia etno-nazionalista”, dice l’appello degli intellettuali alla comunità internazionale — che ha speculato sul dopoguerra più che non facesse nella guerra. La disoccupazione tocca il 60 per cento fra i giovani. La Banca Centrale certifica una crescita dell’1,5 per cento nel 2013 e un aumento della produzione industriale del 6,4, prevedendo un incremento del Pil del 2,4 per l’anno in corso: dati che sembrano più elettorali che reali, accompagnati dalla deplorazione del danno procurato dalle manifestazioni di febbraio.
Agenzie di viaggio internazionali, per ragioni di ignoranza o di concorrenza, avvertono tuttora i loro clienti che la Bosnia- Herzegovina è un territorio di guerra, e comunque a rischio. Con quella “guerra” nella memoria, le notizie di oggi suonano come una grottesca parodia. Allora si scappava da Sarajevo come topi, da un tunnel scavato con le unghie: oggi il vescovo ausiliare cattolico, Pero Sudar — il vicario di lingua sciolta del cardinale Puljic — dice che la Bosnia non è uno Stato, che è «una società moribonda, dalla quale chi può fugge ». Nel pieno della ribellione di febbraio, l’austriaco Valentin Inzko, Alto Rappresentante Internazionale — pomposa nomenclatura del delegato a sovrintendere agli accordi di Dayton — dichiarò in un’intervista al Kurier che l’Austria avrebbe rafforzato le sue truppe. L’idea di un ritorno in forze dell’Austria in quella provincia dell’impero asburgico era una sfida al ridicolo, e molto più amara era quella dell’intervento rapido dell’Europa dove per anni si era lasciata consumare una carneficina. Inzko peraltro ricordava che i lavoratori di Tuzla che avevano dato fuoco alle polveri erano senza salario da più di un anno, e che stavano protestando da allora ogni mercoledì “senza che nessuno ci badasse”. A Mostar, la polizia mise una cura particolare nell’impedire che l’est e l’ovest della città si unissero nella protesta, bloccando il celebre ponte abbattuto e resuscitato: simbolo più eloquente non poteva trovarsi, a mostrare come la contrapposizione “etnica”, nazionalista e religiosa (i bosniaci musulmani sono gli eredi di una ormai antica conversione religiosa, non i membri di un’altra etnia) serva da schermo al potere e alla prepotenza: nella parodia sanguinosa della guerra, e nella parodia cinica della pace.

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