Il bivio di Francesco
La doppia canonizzazione di oggi rappresenta benissimo, con tutte le sue ambiguità, la peculiare contingenza storica nella quale il papato di Francesco si trova. Roncalli e Woytjla sono stati entrambi grandi papi, ma per motivi completamente diversi: l’importanza del papa polacco è derivata in larghissima parte dall’eccezionale durata del suo pontificato, dall’inevitabile accumulazione, in quasi un trentennio, di gesti e di azioni memorabili. La sua grandezza è coincisa con quella di un’intera epoca storica. Perché non si può dire di certo che Giovanni Paolo abbia lasciato alla Chiesa un lascito imponente. Al contrario: è stato un «sovrano immobile». Ha stoppato, in modo deciso, i progressi della mentalità e della cultura del Concilio, ma senza avere la forza o la volontà per un vero ritorno all’indietro, o anche per imboccare un’altra direzione. Quel che di lui rimarrà è soprattutto lo stile comunicativo, la straordinaria capacità di incantare, con le parole e con i gesti, immense masse di cattolici in tutto il mondo.
Diversissima la grandezza di papa Roncalli, che certo verrà anche ricordato per essere stato il «papa buono», per lo stile semplice e diretto da parroco di provincia. E per essere stato un pontefice romano di eccezionale umanità. Ma la sua eredità non è tutta qui e sta soprattutto nella decisione, rivoluzionaria per il destino della Chiesa Cattolica, di aver indetto il Concilio Vaticano II, di aver innescato un processo di mutamento organizzativo, politico, culturale e simbolico di straordinaria portata storica.
Seguire la via di Woytjla o quella di Roncalli? Questo il dilemma drammatico, lo snodo cruciale, di fronte al quale si trova il papato di Bergoglio. Quale sarà la cifra di questo papato? La sensazionale abilità comunicativa o la riforma della Chiesa? La prima è una qualità squisitamente personale, idiosincratica, non ripetibile. Non va banalizzata perché è ricca di sostanza, perché, in un senso profondo, sta a significare la capacità di prendere sul serio il prossimo, di comprenderlo e di accettarlo fino in fondo e in modo autentico.
E tuttavia rimane un attributo personale, soggettivo, che svanisce quando scompare chi lo possedeva. In qualche caso particolare, può restare forte il suo ricordo, che si traduce poi in affetto, memoria, riconoscenza. Ma non in cambiamenti significativi per l’organizzazione che sopravvive al singolo, a maggior ragione quando questa è una chiesa millenaria. Per cambiare quest’ultima ci vogliono scosse molto potenti, cambiamenti strutturali che alterino i rapporti di forza, che rimettano in discussione l’equilibrio dei poteri, che innovino nelle pratiche e nella cultura dell’organizzazione.
Da questo punto di vista, a me pare che papa Francesco sia stato sinora molto prudente, forse perché cauto e preoccupato delle conseguenze che cambiamenti troppo bruschi potrebbero avere sulla tenuta del tessuto ecclesiale, o forse perché non intenzionato a riformare davvero in profondità l’istituzione che guida. Non lo sappiamo. E non lo sanno nemmeno coloro, la stragrande maggioranza dei cronisti e dei commentatori di cose vaticane e cattoliche, che hanno già trasformato questo papa in un «santino», in un’icona da adorare e di fronte alla quale quotidianamente genuflettersi, attribuendo una portata pressoché rivoluzionaria a ogni minimo gesto, anche al più insignificante, del papa «venuto quasi dalla fine del mondo», dando per scontato che il grande cambiamento sia già avvenuto, che le riforme si siano già materializzate. Questi apologeti, spesso non cattolici molto affascinati dalla notevolissima personalità del papa ma poco interessati, proprio perché non cattolici, alla riforma della Chiesa, non rendono un buon servizio né a Francesco né, soprattutto, alla Chiesa, che di riforme ha un bisogno urgente. Restiamo in vigile attesa. Osservando al tempo stesso con preoccupazione il crescere, soprattutto sotterraneo, e quindi più infido, dell’opposizione interna (curiale ed episcopale, ma anche popolare) a qualunque progetto riformatore (quel che emerge quotidianamente su giornali di destra come il Foglio è una parte minima dei mal di pancia che l’eventualità delle riforme sta scatenando). Proprio per questo, per l’ampiezza delle resistenze, per la vastità del fronte conservatore, i riformatori hanno bisogno non solo di un nuovo stile papale, ma di decisioni straordinarie ed epocali. All’altezza dei tempi e prese con ragionevole rapidità. Perché il passare dei mesi gioca a favore dei conservatori, che sono in numero larghissimo dentro la Chiesa e tanti tra i vescovi nominati da Wojtyla e da Ratzinger. Costoro sono in attesa che la ventata di aria nuova che il papato di Francesco rappresenta si esaurisca, che si riveli infine effimera e transitoria. Per questo ci vogliono decisione grandiose, come fu quella giovannea di indire, appena eletto papa, un Concilio per la chiesa cattolica.
Related Articles
Non è un golpe, è una resa
PRESIDENZIALISMO DI FATTO. Da oggi l’Italia non è più una democrazia parlamentare. Non c’è altro modo di leggere il voto di ieri se non come una resa. Una clamorosa, esplicita e trasversale abdicazione del parlamento. Per la seconda volta in poco più di un anno una composizione parlamentare maggioritaria si è messa attivamente in disparte.
Abbado, Cattaneo, Piano e Rubbia Senatori a vita, le scelte del Colle
Il capo dello Stato ha puntato su personalità «non politiche» «Ho compiuto un adempimento, adesso mi sento alleggerito»
Il Csm processa Laudati “Falsità da Scelsi, lo querelo”