by redazione | 19 Aprile 2014 9:22
Ancora un paio di mesi e comincerà il semestre italiano di guida dell’Unione Europea (1° luglio). Comunque vadano le elezioni del 25 maggio per il Parlamento di Strasburgo (e purché alle urne non trionfino le forze più distruttive ed euroscettiche, con il rischio di qualche contraccolpo politico interno), in quella stagione dovrebbero sciogliersi alcuni nodi decisivi per l’Italia. Tali da metterci in sicurezza. Da alcune riforme, indispensabili per garantire una decente stabilità e governabilità, a una serie di penetranti misure per il rilancio dell’economia, alla stessa definizione del nostro ruolo in una Unione che ormai «deve» cambiare rotta.
Un periodo cruciale, dunque, in cui il Paese dovrà essere rappresentato al massimo livello di autorevolezza, se davvero vorrà contare nel confronto con i 28 partner della Ue. In questa scommessa Giorgio Napolitano ha investito molto del proprio impegno, negli ultimi mesi. E c’è da pensare che non mancherà di affiancare il premier Renzi — il quale a Bruxelles è ancora «una novità» relativa — facendo pesare, qualora lo giudicasse utile all’interesse generale, il suo prestigio presso le Cancellerie internazionali.
Così, a chi sta almanaccando su quale sia l’orizzonte temporale che il presidente si assegna prima di prevedere il «distacco», non è azzardato consigliare lo scivolamento di ogni suggestione e congettura a quando sarà archiviato il 2014. È la logica a dirlo, smentendo le voci di un abbandono molto vicino (per qualcuno a giugno) e che, a questo punto della transizione italiana, potrebbe rivelarsi tutt’altro che light e senza traumi. Anche perché — appuntamento europeo a parte — il capo dello Stato non ha mai fatto mistero di voler vedere approvata la nuova legge elettorale, e almeno ben avviate le altre due riforme costituzionali già nell’agenda del Parlamento, prima di chiudere un mandato-bis il cui primo anno si è rivelato «duro», per lui. «Duro, faticoso» e in alcuni momenti «ingrato», per le tante difficoltà politiche e per alcune intermittenti polemiche che si sono concentrate sul Quirinale. Eppure, nonostante tutto, i 12 mesi trascorsi dalla sua rielezione li definisce «positivi» perché il cantiere delle riforme è stato finalmente aperto. Con una «accelerazione» che era ormai indispensabile e che accoglie quindi con fiducia e ponderato ottimismo.
Napolitano lo ha spiegato nell’ampia lettera pubblicata ieri dal Corriere in risposta al direttore Ferruccio de Bortoli, che gli chiedeva un provvisorio bilancio. Le sue riflessioni, che riprendevano e aggiornavano il filo del suo discorso d’insediamento, il 22 aprile 2013, sono state accolte da un consenso pressoché unanime. Dall’ex premier Enrico Letta, che lo ringrazia «per il sacrificio e la speranza», al Pd, che per bocca di Lorenzo Guerini assicura che i dem «non faranno mancare» l’appoggio alle riforme; da Casini a Pisicchio, del Centro democratico, a Susta di Scelta civica, al Nuovo centrodestra di Quagliariello, Alfano e Cicchitto. Uniche eccezioni, in coerenza con una vocazione al conflitto permanente: i 5 Stelle, con Paolo Becchi che piange addirittura la «morte della Repubblica», e il sito di Renato Brunetta, che drasticamente sentenzia un «bilancio negativo».
Tranne loro, il coro è un atto d’omaggio e di stima per il presidente (così del resto suonarono gli applausi che accolsero il suo secondo giuramento), anche se certo non rispecchia per intero le difficoltà residue di questa fase politica. Cioè, per stare alle parole del capo dello Stato, quella «persistente, estrema resistenza, che viene dagli ambienti più disparati, all’obbligo nazionale e morale di garantire la continuità dei percorsi istituzionali anche fuori, in via temporanea, dalla dialettica dell’alternanza». In altre parole: quelle larghe intese che, in caso di un responso elettorale paralizzante e privo di alternative, qualsiasi Paese d’Europa si impone di tenere a battesimo, ma che da noi, prigionieri di un irriducibile spirito di fazione, diventano un odioso e insopportabile inciucio.
Marzio Breda
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