Biagio Marin Il vecchio poeta e il figliolo d’anima: dialoghi in libertà

Biagio Marin Il vecchio poeta e il figliolo d’anima: dialoghi in libertà

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È il 1955. Siamo a Trieste, «periferia insicura» d’Italia, città raggiante d’orgoglio e nostalgia per un passato che incrociava lingue e culture in una stessa identità, eppure già piegata verso il declino. Un funzionario delle Assicurazioni Generali accompagna il figlio a conoscere un collega che lavora come bibliotecario. Il ragazzo, Claudio Magris, liceale, ha 16 anni. L’amico del padre, Biagio Marin, poeta di riconosciuto prestigio, 64. Potrebbero essere nonno e nipote. Ma il vecchio, cui è morto in guerra l’unico erede maschio, Falco, «adotta» subito il giovane interlocutore: ne fa un suo «figliolo d’anima», corrisposto nella stima e nell’affetto. Sono intelligenze simpatetiche. E la diversità di prospettive (il primo, nato sotto l’impero austroungarico, sembra attardarsi su canoni estetico-filosofici d’inizio secolo; il secondo, che già riflette sulla crisi dei totalitarismi con cui si chiuderà il Novecento, coltiva precocissime curiosità in ogni campo) non condiziona il dialogo tra loro.
Parlano a lungo, quel giorno. «Di Platone, e soprattutto dei dialoghi socratici», ricorda l’allievo. Un colloquio che continuerà per una trentina d’anni e che è testimoniato da un vasto epistolario. Oggi lo si può leggere, con il supporto di qualche brano dei diari di Marin, in un volume (Ti devo tanto di ciò che sono , Garzanti) che compone l’affascinante racconto di un’amicizia fertile e non sempre facile. La parabola di una formazione che, mentre ci fa riscoprire l’autore di tanti versi nell’arcaico dialetto dell’isola di Grado, ci permette di ricostruire pezzi sconosciuti del percorso di Magris saggista, editorialista e scrittore. Due biografie sulle quali lievita la storia di «un’Italia civile che era forse solo una nostra esigenza» — come diceva Marin — e che è anche repertorio di personaggi e di avventure culturali.
Sono entrambi caratteri forti, e uno si affiderà all’altro in un rapporto destinato nel tempo a rovesciarsi, quanto a spinte protettive. Il «caro Claudio», approdato nella Torino di Bobbio, Getto, Vincenti e Mittner per gli studi universitari da germanista, confessa progetti, ambizioni e un tumulto di dubbi multilaterali (su arte, letteratura, filosofia, politica, religione) e accoglie le risposte con lo spirito di chi si dispone come una carta assorbente, includendole in sé. «Biasèto», il maestro di libertà, colma i suoi passi mancanti riversandogli frammenti delle esperienze vissute con Stuparich, Michelstaedter, Prezzolini, Giotti, Voghera, Jemolo, Caproni, Sereni, Pasolini, Turoldo. È però Scipio Slataper, morto giovanissimo, che gli viene in mente quando pensa a Magris, perché gli sembra un suo doppio, «armonioso, solare, integro, puro».
Volano le stagioni e il carteggio si snoda come un flusso di coscienza, nel quale i due monologano senza reticenze, a volte con punte d’asprezza. La tesi di laurea di Claudio sul «mito absburgico» è stampata da Einaudi e Marin vi coglie i segni di un destino importante, che quasi lo intimidisce. Lo vede emanciparsi da lui e teme di perderlo. A 27 anni Magris è in cattedra, prima a Torino, poi a Trieste. Si sposa con Marisa Madieri, lavora e viaggia febbrilmente, impegnato nella sua «buona battaglia», con un’ansia di conoscenza da ulisside. Le lettere e le visite a Grado si fanno più rare e brevi, ma trova il modo di curare un paio di antologie della sua prima guida morale (altri da associare nello stesso «stato di famiglia» saranno Singer, Canetti, Cavallari, quest’ultimo più fratello maggiore che padre).
È in quello scorcio di tempo che, mentre fa il soldato, va a trovare l’amico, ospite di una figlia a Roma. A tavola c’è anche Pasolini, e Marin osserva il confronto tra loro. Annota sul diario, il 9 gennaio 1966: «Nella conversazione il giovane Magris lo subissava. Eppure è uno degli uomini più intelligenti d’Italia, Pier Paolo… ma Claudio lo ha sbalordito. E io, lì, ad ascoltarli, pieno di meraviglia». Una meraviglia che il pupillo conferma con opere straordinarie, prima e dopo quel Danubio che lo consacra tra i grandi. Quando Marin scompare a 94 anni, nel 1985, è ormai sordo e quasi cieco, eppure fino alla fine si ostina a prendere appunti indecifrabili nei suoi diari. E si scopre che anche le ultime righe sono dedicate al «figliolo d’anima» che si era scelto nel 1955.


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