by redazione | 22 Marzo 2014 9:51
Il sociologo Roberto Weber non crede che il referendum sia una pagliacciata. E mostra una cartellina datata febbraio 2014 con un sondaggio sull’opinione dei veneti sull’indipendenza territoriale. Un 30% degli intervistati si sente «veneto» prima che europeo (25%) o italiano (44%) e la percentuale è ancora più alta, a sorpresa, tra i giovani 18-24 anni (37%). E alla domanda se l’ipotesi di un Veneto indipendente «ha una base solida e ragionevole» il 43% risponde senza esitazioni sì. Se è vero che quando si parla del Nord Est qualsiasi fenomeno sociale finisce per essere pedissequamente catalogato come «una spia del malessere» (lo stesso era successo a dicembre per i Forconi), il referendum di Busato e soci ha incrociato e canalizzato le inquietudini dei veneti.
Spiega Andrea Bolla, veronese e vicepresidente nazionale della Confindustria: «L’identità territoriale da noi è decisamente più forte che altrove, il saldo entrate-uscite con lo Stato ci penalizza fortemente e abbiamo la sensazione di non essere considerati per quanto valiamo». Sono in ballo, quindi, sentimenti forti che «di volta in volta cercano uno sbocco, anche se come in questo caso avviene sotto forma di un’iniziativa estemporanea». Nel breve è abbastanza facile prevedere che il sondaggio finisca per avvantaggiare il governatore Luca Zaia, che infatti quando ne ha capito le potenzialità lo ha battezzato. Del resto si vocifera che abbia intenzione per le prossime regionali di confezionare una bella lista civica e prendere, seppur indirettamente, le distanze dal deludente Carroccio.
Zaia, del resto, ha fatto dell’empatia la chiave di volta della sua azione politica. Non a caso le classifiche lo danno regolarmente in testa tra i governatori più popolari e l’idea della sinistra di promuovere ministro Flavio Zanonato, per preparare la grande sfida veneta, si è rivelata una boutade. Le lacune di Zaia sono evidenti e si chiamano bassa progettualità. Il governatore è stato sempre attento a non mischiare mai politica e affari perché anche da queste parti in parecchi sono rimasti ustionati. Il suo collega e antagonista Flavio Tosi è finito in fuori gioco per le pesanti inchieste giudiziarie che coinvolgono i suoi più stretti collaboratori e diversi fascicoli nelle procure venete sono dedicati alle commistioni tra imprenditori e amministratori locali. Se la precedente giunta guidata da Giancarlo Galan aveva avuto, come Roberto Formigoni in Lombardia, la presunzione di forgiare l’economia regionale e di spingerla verso la transizione al terziario avanzato, Zaia ha tutt’al più favorito i successi del Prosecco. Sarebbe sbagliato però confinare la frustrazione veneta al solo ambito politico o all’assenza di ministri nel governo Renzi. Anche gli industriali fuori dai loro stabilimenti e fuori delle affollate assemblee hanno dovuto ammettere di contare poco. I grandi progetti che i Bolla, i Tomat, gli Zuccato e i Vardanega hanno chiesto ad alta voce — dalla Tav Milano-Venezia agli investimenti per la banda larga — sono rimasti lettera morta. La prorompente voglia di identità veneta continua ad avere una forza propulsiva incredibile ma riesce mai a produrre classe dirigente e progetti all’altezza.
E’ chiaro che quelli che vanno dal 2008 al 2013 sono stati anni assai difficili per le pur scattanti imprese venete e molti imprenditori si sono dovuti dedicare anima e corpo alle ristrutturazioni aziendali più che alla res publica. I numeri della crisi continuano ad essere impietosi: secondo un fresco report di Unioncamere Veneto il Pil regionale nel 2013 è sceso dell’1,6% (più di quanto siano calati in Lombardia ed Emilia), le imprese attive sono scese in un anno di 8 mila unità e si sono persi 18 mila posti di lavoro ma anche nella terra del Piave il vero fenomeno nuovo è la polarizzazione del sistema industriale. In cotanto sfascio, infatti, le esportazioni hanno fatto segnare nel 2013 un +2,8 raggiungendo i 52,6 miliardi di euro. «Chi è riuscito a entrate nelle filiere globali si è messo a posto» racconta Paolo Gubitta, direttore scientifico del Cuoa di Altavilla Vicentina e cita casi aziendali come Maschio Gaspardo, Pedon, Pavin e Finco. Avventure imprenditoriali in cui si mischiano la capacità di localizzarsi in Cina per produrre macchine agricole, la coltivazione di terreni in Africa per importare materie prime, l’inserimento nelle nuove filiere produttive polacche. «C’è un’abilità nel prendere i treni in corsa che stupisce ancora anche gente come noi che le aziende le studia per mestiere. Ma anche solo entrare nella filiera dell’Ikea non è facile, bisogna essere evoluti». Sul mercato interno, invece, si soffrono le pene dell’inferno. E le storie di successo sono l’eccezione. Gubitta racconta di un caso della falegnameria Zordan che forniva arredi per i negozi monomarca solo in Italia ed è passata a servire gli showroom del lusso in giro per il mondo. A dimostrazione di come si sentano in trappola i Piccoli che dipendono sulla domanda interna c’è il precario stato di salute di tante banche di credito cooperativo del territorio. L’elenco parla della Bcc Padovana e di quella Adige Po e poi della Monastier (commissariata), della Banca del Veneziano e della Bcc Euganea fino alla Banca Padovana, al Credito Trevigiano di Vedelago e alla Cassa Rurale di Montagnana. Le sofferenze sono esplose aumentando in diversi distretti del 300 %.
Se, come si ripete sempre, il Veneto ha difficoltà congenite a fare sistema, la Grande Crisi non era certo l’occasione migliore per invertire la rotta. Qualcosa di più però si poteva fare, con il nobile scopo di far evolvere il modello Nord Est. Persino la notizia che Padova era la migliore università d’Italia non è stata capitalizzata, eppure avrebbe potuto rappresentare quel nuovo inizio decisivo per superare lo stereotipo dei capannoni e dei padron veneti che urlano nei talk show. Per mettere a fattor comune gli aeroporti qualcosa si è mosso. Venezia e Verona dovrebbero unirsi e, seppur tra lentezze dovute alla presenza di molti azionisti pubblici, le cose stanno andando avanti. Nel mondo del credito esiste un disegno della Popolare di Vicenza di annessione di Veneto Banca con gli auspici della Banca d’Italia ma dal quartiere generale di Montebelluna hanno tirato su le barricate. Anche in termini di accorpamento di piccoli Comuni e città metropolitane si è fatto poco, qualche esempio virtuoso nel Camposanpierese (Padova) ma non molto di più. Così si finisce per accontentarsi di simboli come la notizia di pochi giorni fa secondo la quale le Confindustrie di Verona e Vicenza hanno deciso che la prossima assemblea annuale la faranno insieme, prendi due paghi uno. In questa situazione quindi il Veneto — indipendente o no resta al punto — di sempre: grande vitalità dal basso e scarsa elaborazione. E il referendum non fa che rafforzare questa sindrome .
Dario Di Vico
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