Veleni. La bomba ecologica che minaccia il paradiso dei parchi in Abruzzo

by redazione | 24 Marzo 2014 18:05

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BUSSI (PESCARA) — Questa è la discarica di veleni più grande d’Europa. Qui intorno, su una superficie di circa 30 ettari, sono state “intombate” quasi 250 mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti industriali. Una bomba ecologica al confine tra il Parco del Gran Sasso e quello della Maiella, a Bussi su Tirino, in Abruzzo. Ma oggi, dopo quarant’anni di denunce e polemiche approdate finalmente nelle aule giudiziarie, dalle ceneri contaminate di questo disastro potrebbe cominciare un’operazione di bonifica e riqualificazione di tutta l’area, per sperimentare un modello di riconversione industriale su scala internazionale.
La storia comincia nel 1972, quando l’allora assessore all’Igiene e alla sanità del Comune di Pescara, Giovanni Contratti, scrive una lettera alla Montecatini Edison, proprietaria dello stabilimento chimico di Bussi, chiedendo di ripulire il sito e adottare misure anti-inquinamento. Passarono 35 anni prima che la Guardia forestale mettesse nel 2007 i primi sigilli alla discarica Tre Monti. Fino ad arrivare ai nostri giorni, con il processo davanti alla Corte d’assise
di Pescara in cui 19 responsabili dell’ex colosso devono rispondere di disastro doloso e avvelenamento delle acque, mentre sono finiti sul registro degli indagati anche otto dirigenti della società francese Solvay che nel 2002 aveva acquistato il polo chimico dall’Ausimont (gruppo Montedison).
Una prima stima dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) per il ministero della Salute valuta un danno ambientale di 8,5 miliardi di euro e un costo di 500-600 milioni per la bonifica della discarica che al momento appare ricoperta da un “sarcofago”, con un telone impermeabile e sopra un terrapieno di ghiaia, come la tomba di un faraone. Per effetto della legge per il terremoto dell’Aquila, finora ne sono stati stanziati una cinquantina. Ma questi soldi – come precisa il sindaco di Bussi, Salvatore La Gatta – sono destinati alla bonifica e alla reindustrializzazione dello stabilimento che oggi è fermo.
Oltre alla discarica Tre Monti, a monte del polo industriale se ne trovano altre due, di minore estensione e criticità. Originariamente furono autorizzate per lo stoccaggio degli scarti di produzione, ma poi anch’esse sono state sequestrate dalla magistratura e recentemente risequestrate a causa di una malagestione. Un deposito di veleni, insomma, che continua a inquinare la terra e il
sottosuolo in forza di un’antica maledizione chimica che risale alla fine dell’Ottocento. Già allora questo appariva il luogo ideale per localizzare la “nuova industria”, sfruttando la portata dei due fiumi Tirino e Pescara: il primo è stato deviato con un salto di 70 metri e addirittura inglobato nello stabilimento, caso unico in Italia, per produrre energia elettrica e alimentare un impianto di scomposizione
elettrolitica del cloruro di sodio da cui si ricavano cloro e soda. Qui, durante l’ultimo secolo, più di mille operai sfornavano la formaldeide, il potente disinfettante poi bandito dal mercato perché riconosciuto cancerogeno. E, ancora, varechina, perclorati (componenti sbiancanti dei detersivi) e cloruro di ammonio. Nei periodi di guerra, dal paese-fabbrica di Bussi è uscito perfino l’yprite,
il terribile gas nervino con cui i nostri soldati furono sconfitti a Caporetto e che noi stessi utilizzammo poi nella campagna d’occupazione in Africa.
Nel tempo gli scarti di queste produzioni, insieme alle acque di scarico che, filtrate, confluivano nei due fiumi, sono stati sparsi sul territorio come il sale a Cartagine. L’operazione di bonifica, quindi, deve comprendere il polo chimico e tutta l’area contaminata. E per quanto riguarda in particolare la discarica dei veleni, c’è chi dice che è sigillata dallo strato di argilla sottostante e chi invece sostiene come il presidente regionale di Legambiente, Angelo Di Matteo, geologo – che si tratta di un’argilla porosa, per cui non si può affatto escludere il rischio di inquinamento delle falde freatiche.
Oggi l’attenzione di tutti è concentrata sullo stabilimento e sul piano di reindustrializzazione, da cui l’amministrazione comunale si aspetta almeno un centinaio di posti di lavoro per ridare vita a un paese di 2.800 abitanti con uno dei redditi pro-capite più bassi dell’Abruzzo (11mila euro all’anno). Ma su questo futuro i pareri e i desideri divergono, anche in rapporto agli appetiti degli imprenditori interessati
all’operazione. A cominciare da Carlo Toto, patron di Air One, considerato vicino al Pd e amico personale dell’ex sindaco di Pescara Luciano D’Alfonso: il suo progetto è di trasformare l’ex polo chimico in un cementificio, per approvvigionare il quale avrebbe già chiesto le concessioni minerarie sulle montagne vicine.
Il sindaco La Gatta (Rifondazione comunista) riferisce di aver ricevuto una ventina di manifestazioni d’interesse da parte di altrettante aziende, tre delle quali chimiche: «Per noi sarebbe un’occasione storica: da quarant’anni qui non investe più nessuno». Ma il presidente di Legambiente Di Matteo avverte: «Siamo d’accordo sulla reindustrializzazione. Bisogna fare, però, un salto di qualità: questo deve diventare un Laboratorio delle bonifiche, per realizzare un esperimento di frontiera da replicare eventualmente nel resto
d’Italia e d’Europa».

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