Università, anatomia di un delitto scellerato

by redazione | 19 Marzo 2014 7:58

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Manca solo il nome dell’assassino. Per­ché il rap­porto sullo stato dell’università e della ricerca nel 2013 reso noto ieri a Roma dall’Agen­zia Nazio­nale di Valu­ta­zione del sistema Uni­ver­si­ta­rio e della ricerca (Anvur) atte­sta il delitto com­piuto ai danni dell’università ita­liana. Per la prima volta dalla riforma Gel­mini sono state veri­fi­cate le con­se­guenze del taglio di 1,1 miliardi di euro all’anno agli ate­nei voluto nel 2008 da Tremonti-Berlusconi-Gelmini, insieme agli 8,4 miliardi sot­tratti alla scuola. L’Italia è l’unico paese Ocse ad avere fatto que­sta scel­le­ra­tezza, all’inizio della grande reces­sione.
Oggi, dice l’Anvur, le entrate sono infe­riori del 30% annuo rispetto a quelle degli altri paesi. In tempi di Fiscal Com­pact, è dif­fi­cile solo imma­gi­nare come repe­rire 3 miliardi di euro in più – que­sto è il fab­bi­so­gno sti­mato dall’Anvur – per far ripar­tire una mac­china al dissesto.Que­sti tagli sono il risul­tato di una deci­sione poli­tica avval­lata dall’interventismo del pre­si­dente della Repub­blica Gior­gio Napo­li­tano che sostenne la riforma Gel­mini, legit­timò i tagli, e in un mes­sag­gio ieri si è detto «pre­oc­cu­pato» per la situa­zione, con­so­lan­dosi però dei risul­tati eccel­lenti» rag­giunti dai ricer­ca­tori. Che sono pochi, e lo saranno sem­pre di più, anche se oggi sod­di­sfano i cri­teri inter­na­zio­nali della pro­dut­ti­vità scien­ti­fica. Gli stu­denti che il 14 dicem­bre 2011 si rivol­ta­rono a Roma con­tro la riforma Gel­mini e i tagli furono molto più pre­vi­denti di chi oggi si con­sola con que­sti numeri.Il rap­porto Anvur dimo­stra – dati alla mano – anche la realtà del fal­li­mento della riforma dei cicli didat­tici «Berlinguer-Zecchino», il «3+2» tar­gato centro-sinistra nel 2000. La riforma ha aumen­tato il numero dei lau­reati del 31% (212 mila) rispetto al 2000, ma il tra­guardo del 40% resta lon­tano. I lau­reati 25-34enni sono il 22,3%, men­tre calano le imma­tri­co­la­zioni (69 mila tra il 2004 e il 2013), in par­ti­co­lare tra gli over 23. Su que­sto dato ha inciso la fine dei pro­grammi «lau­reare l’esperienza» che hanno creato una bolla di neo-laureati tra i dipen­denti pub­blici (da 63 mila a 15 mila) più che la sfi­du­cia dei gio­vani. Un ele­mento mai prima di oggi con­si­de­rato quando si cele­bra il fune­rale dell’università. Cre­scono nel frat­tempo gli abban­doni e si allun­gano i tempi della lau­rea trien­nale, per otte­nere la quale ci vogliono 5 anni e 1 mese. I fuori-corso sono oltre il 40% di 1 milione e 750 mila iscritti. Una realtà che ha spinto la mini­stra Ste­fa­nia Gian­nini a defi­nire «pato­lo­gici» 700 mila stu­denti. Ci è man­cato poco che li defi­nisse «costi sociali» come l’ex mini­stro Pro­fumo.
Que­sto dato è un ulte­riore fal­li­mento del «3+2» che avrebbe dovuto abbat­tere il numero dei fuori-corso, senza successo.Nono­stante i tagli, il ridi­men­sio­na­mento del diritto allo stu­dio, il calo dei dot­to­rati da 1557 a 914, l’aumento delle tasse stu­den­te­sche, l’aumento della distanza tra ate­nei del Nord e del Sud, la crisi che secondo l’Ocse ha bru­ciato 2400 euro del red­dito delle fami­glie in 5 anni, la pre­ca­rietà degli stu­denti che vedono sem­pre meno nell’università l’occasione di un avan­za­mento sociale, il valore della lau­rea sem­bra resi­stere. L’Anvur ha ripreso i dati Alma­lau­rea e con­ferma: a 5 anni dal titolo serve a difen­dere meglio un posto (pre­ca­rio) di lavoro e la spe­ranza in un red­dito sia pure modesto.Fino ad oggi, l’università è soprav­vis­suta al fal­li­mento dei tagli e delle riforme solo gra­zie al blocco degli sti­pendi e del turn-over dei docenti ordi­nari e dei ricer­ca­tori. Ma i guai sono solo all’inizio. Tra cin­que anni, nel 2019, andranno in pen­sione il 17% degli attuali docenti uni­ver­si­tari (9 mila), senza con­tare quelli che sono fug­giti dal 2010. Per sosti­tuirli ne occor­rono 1.800 all’anno per garan­tire didat­tica e ricerca. Senza fondi aggiun­tivi, e con il blocco totale del turn-over annun­ciato da Carlo Cot­ta­relli, il destino riser­vato all’istruzione in Ita­lia è il ridi­men­sio­na­mento pre­vi­sto sin dal 2008 da Tre­monti e Gel­mini. La valu­ta­zione degli ate­nei, e l’attribuzione delle risorse scarse a quelli «eccel­lenti» (del Centro-Nord) sarà effet­tuata dall’Anvur. Se, come ha detto Gian­nini, la «valu­ta­zione è fon­da­men­tale per pren­dere deci­sioni poli­ti­che», a que­sta agen­zia oggi è stato attri­buito il grave com­pito di ride­fi­nire il ruolo eli­ta­rio, e non più pub­blico e di massa, dell’università.
Il neo-ministro dell’Istruzione Ste­fa­nia Gian­nini (Scelta Civica), pre­sente ieri alla pre­sen­ta­zione del rap­porto, ha con­fer­mato di volere affron­tare que­sta pro­fonda crisi dell’università ricor­rendo alle tra­di­zio­nali ricette della gover­nance neo-liberista: pre­miare il “merito” degli ate­nei “eccel­lenti”, sem­pli­fi­care le pro­ce­dure dei con­corsi e infine rime­diare allo scan­dalo degli “ido­nei senza borsa”, cioè que­gli stu­denti che hanno vinto una borsa di stu­dio ma che non pos­sono usu­fruire del loro diritto allo stu­dio. Si tratta di argo­menti che rispon­dono a quella razio­na­lità, ispi­rata alla pro­dut­ti­vità, all’efficienza e all’aziendalismo, che ha segnato il fal­li­mento del ven­ten­nio delle riforme dell’università. L’appello della mini­stra alle imprese ad inve­stire nell’istruzione è sem­brato più che altro un auspi­cio, visto che sin dalla riforma Ber­lin­guer tali inve­sti­menti (come la fami­ge­rata par­te­ci­pa­zione delle imprese ai Cda degli ate­nei) è rima­sto più che altro il sogno dei “rifor­ma­tori” di sini­stra e di destra. L’economia della cono­scenza è fal­lita. La crisi ini­ziata nel 2008 ha peg­gio­rato le cose.Ciò che è pas­sato ai più inos­ser­vato ieri è stato il suo impre­ve­di­bile ulti­ma­tum al pre­si­dente del Con­si­glio Renzi. Gian­nini ha affer­mato: «Gli inve­sti­menti sull’edilizia sco­la­stica vanno bene — ha detto la mini­stra dell’istruzione Ste­fa­nia Gian­nini (Scelta Civica) — ma biso­gna occu­parsi anche degli inse­gnanti e dell’università» per­chè il taglio di 1,1 miliardi di euro ai fondi per gli ate­nei «è una realtà impre­sen­ta­bile a livello inter­na­zio­nale». E poi l’avvertimento: «Il governo deve rispet­tare l’impegno della cen­tra­lità dell’istruzione — ha detto Gian­nini — se non si aumen­tano i fondi all’università il mio par­tito porrà un pro­blema poli­tico nel governo».Quando Maria Chiara Car­rozza (Pd) entrò al Miur prese una posi­zione altret­tanto decisa, ma pro­mise solo di dimet­tersi in caso di «nuovi tagli». Gian­nini alza l’asticella e, se sarà con­se­guente, potrebbe creare un pro­blema per l’esecutivo di Renzi.Di quali cifre stiamo par­lando?
L’Anvur parla di 3 miliardi di euro, all’anno. Una cifra deter­mi­nata dalla distanza tra gli inve­sti­menti ita­liani in istru­zione e ricerca e la media dei paesi Ocse: meno 0,18%. Que­sti fondi ser­vi­reb­bero a recu­pe­rare il miliardo e più tagliato da Gel­mini e a riav­viare un’istituzione cli­ni­ca­mente morta.Per Gian­nini, l’idea pro­gram­ma­tica è quella di col­le­gare «la for­ma­zione uma­ni­stica al mondo del lavoro».
Tutti appren­di­sti, dun­que. Le let­tere, le arti e i saperi dovranno ser­vire agli stu­denti ita­liani per otte­nere un con­tratto infi­ni­ta­mente pre­ca­rio. Quello del «Jobs Act». In fondo, lo ha detto ieri Renzi, «negli ultimi vent’anni le poli­ti­che sul lavoro non hanno creato pre­ca­rietà». Anche chi ha fatto l’università la pensa diversamente.

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