Università, anatomia di un delitto scellerato
Manca solo il nome dell’assassino. Perché il rapporto sullo stato dell’università e della ricerca nel 2013 reso noto ieri a Roma dall’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della ricerca (Anvur) attesta il delitto compiuto ai danni dell’università italiana. Per la prima volta dalla riforma Gelmini sono state verificate le conseguenze del taglio di 1,1 miliardi di euro all’anno agli atenei voluto nel 2008 da Tremonti-Berlusconi-Gelmini, insieme agli 8,4 miliardi sottratti alla scuola. L’Italia è l’unico paese Ocse ad avere fatto questa scelleratezza, all’inizio della grande recessione.
Oggi, dice l’Anvur, le entrate sono inferiori del 30% annuo rispetto a quelle degli altri paesi. In tempi di Fiscal Compact, è difficile solo immaginare come reperire 3 miliardi di euro in più – questo è il fabbisogno stimato dall’Anvur – per far ripartire una macchina al dissesto.Questi tagli sono il risultato di una decisione politica avvallata dall’interventismo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che sostenne la riforma Gelmini, legittimò i tagli, e in un messaggio ieri si è detto «preoccupato» per la situazione, consolandosi però dei risultati eccellenti» raggiunti dai ricercatori. Che sono pochi, e lo saranno sempre di più, anche se oggi soddisfano i criteri internazionali della produttività scientifica. Gli studenti che il 14 dicembre 2011 si rivoltarono a Roma contro la riforma Gelmini e i tagli furono molto più previdenti di chi oggi si consola con questi numeri.Il rapporto Anvur dimostra – dati alla mano – anche la realtà del fallimento della riforma dei cicli didattici «Berlinguer-Zecchino», il «3+2» targato centro-sinistra nel 2000. La riforma ha aumentato il numero dei laureati del 31% (212 mila) rispetto al 2000, ma il traguardo del 40% resta lontano. I laureati 25-34enni sono il 22,3%, mentre calano le immatricolazioni (69 mila tra il 2004 e il 2013), in particolare tra gli over 23. Su questo dato ha inciso la fine dei programmi «laureare l’esperienza» che hanno creato una bolla di neo-laureati tra i dipendenti pubblici (da 63 mila a 15 mila) più che la sfiducia dei giovani. Un elemento mai prima di oggi considerato quando si celebra il funerale dell’università. Crescono nel frattempo gli abbandoni e si allungano i tempi della laurea triennale, per ottenere la quale ci vogliono 5 anni e 1 mese. I fuori-corso sono oltre il 40% di 1 milione e 750 mila iscritti. Una realtà che ha spinto la ministra Stefania Giannini a definire «patologici» 700 mila studenti. Ci è mancato poco che li definisse «costi sociali» come l’ex ministro Profumo.
Questo dato è un ulteriore fallimento del «3+2» che avrebbe dovuto abbattere il numero dei fuori-corso, senza successo.Nonostante i tagli, il ridimensionamento del diritto allo studio, il calo dei dottorati da 1557 a 914, l’aumento delle tasse studentesche, l’aumento della distanza tra atenei del Nord e del Sud, la crisi che secondo l’Ocse ha bruciato 2400 euro del reddito delle famiglie in 5 anni, la precarietà degli studenti che vedono sempre meno nell’università l’occasione di un avanzamento sociale, il valore della laurea sembra resistere. L’Anvur ha ripreso i dati Almalaurea e conferma: a 5 anni dal titolo serve a difendere meglio un posto (precario) di lavoro e la speranza in un reddito sia pure modesto.Fino ad oggi, l’università è sopravvissuta al fallimento dei tagli e delle riforme solo grazie al blocco degli stipendi e del turn-over dei docenti ordinari e dei ricercatori. Ma i guai sono solo all’inizio. Tra cinque anni, nel 2019, andranno in pensione il 17% degli attuali docenti universitari (9 mila), senza contare quelli che sono fuggiti dal 2010. Per sostituirli ne occorrono 1.800 all’anno per garantire didattica e ricerca. Senza fondi aggiuntivi, e con il blocco totale del turn-over annunciato da Carlo Cottarelli, il destino riservato all’istruzione in Italia è il ridimensionamento previsto sin dal 2008 da Tremonti e Gelmini. La valutazione degli atenei, e l’attribuzione delle risorse scarse a quelli «eccellenti» (del Centro-Nord) sarà effettuata dall’Anvur. Se, come ha detto Giannini, la «valutazione è fondamentale per prendere decisioni politiche», a questa agenzia oggi è stato attribuito il grave compito di ridefinire il ruolo elitario, e non più pubblico e di massa, dell’università.
Il neo-ministro dell’Istruzione Stefania Giannini (Scelta Civica), presente ieri alla presentazione del rapporto, ha confermato di volere affrontare questa profonda crisi dell’università ricorrendo alle tradizionali ricette della governance neo-liberista: premiare il “merito” degli atenei “eccellenti”, semplificare le procedure dei concorsi e infine rimediare allo scandalo degli “idonei senza borsa”, cioè quegli studenti che hanno vinto una borsa di studio ma che non possono usufruire del loro diritto allo studio. Si tratta di argomenti che rispondono a quella razionalità, ispirata alla produttività, all’efficienza e all’aziendalismo, che ha segnato il fallimento del ventennio delle riforme dell’università. L’appello della ministra alle imprese ad investire nell’istruzione è sembrato più che altro un auspicio, visto che sin dalla riforma Berlinguer tali investimenti (come la famigerata partecipazione delle imprese ai Cda degli atenei) è rimasto più che altro il sogno dei “riformatori” di sinistra e di destra. L’economia della conoscenza è fallita. La crisi iniziata nel 2008 ha peggiorato le cose.Ciò che è passato ai più inosservato ieri è stato il suo imprevedibile ultimatum al presidente del Consiglio Renzi. Giannini ha affermato: «Gli investimenti sull’edilizia scolastica vanno bene — ha detto la ministra dell’istruzione Stefania Giannini (Scelta Civica) — ma bisogna occuparsi anche degli insegnanti e dell’università» perchè il taglio di 1,1 miliardi di euro ai fondi per gli atenei «è una realtà impresentabile a livello internazionale». E poi l’avvertimento: «Il governo deve rispettare l’impegno della centralità dell’istruzione — ha detto Giannini — se non si aumentano i fondi all’università il mio partito porrà un problema politico nel governo».Quando Maria Chiara Carrozza (Pd) entrò al Miur prese una posizione altrettanto decisa, ma promise solo di dimettersi in caso di «nuovi tagli». Giannini alza l’asticella e, se sarà conseguente, potrebbe creare un problema per l’esecutivo di Renzi.Di quali cifre stiamo parlando?
L’Anvur parla di 3 miliardi di euro, all’anno. Una cifra determinata dalla distanza tra gli investimenti italiani in istruzione e ricerca e la media dei paesi Ocse: meno 0,18%. Questi fondi servirebbero a recuperare il miliardo e più tagliato da Gelmini e a riavviare un’istituzione clinicamente morta.Per Giannini, l’idea programmatica è quella di collegare «la formazione umanistica al mondo del lavoro».
Tutti apprendisti, dunque. Le lettere, le arti e i saperi dovranno servire agli studenti italiani per ottenere un contratto infinitamente precario. Quello del «Jobs Act». In fondo, lo ha detto ieri Renzi, «negli ultimi vent’anni le politiche sul lavoro non hanno creato precarietà». Anche chi ha fatto l’università la pensa diversamente.
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